Allora è andata. Ci è stata risparmiata l’ennesima e odiosa esibizione muscolare. Tra una settimana il teatro verrà riconsegnato per essere restaurato, ma l’esperienza del Valle bene comune continuerà a vivere. Non sappiamo come, quando e dove, ma riprenderà a esprimersi in un futuro che assicurano prossimo. Roma non sarà privata di uno dei progetti culturali più interessanti sulla scena contemporanea internazionale.

E ora, superato il rischio di deflagrazioni conflittuali, al di là e al di sopra di ogni valutazione sull’esito della trattativa con il Comune di Roma, è forse possibile riprendere a ragionare intorno ai beni comuni. Con un elemento in più, tuttavia, che è proprio il lascito dell’occupazione del Valle. Grazie alla quale, quel teatro è tornato a essere inalienabile: indisponibile cioè a compravendite, riconversioni, speculazioni. Non è poco: e soprattutto sta lì a segnalare che solo opponendosi si riesce a contrastare la dissipazione del patrimonio pubblico.

Già, poiché in questo paese si è deciso di derubare noi tutti e noi tutte dei beni che ci appartengono. Ogni amministrazione pubblica, dalle centrali ministeriali al più piccolo dei Comuni, ha tra i suoi obiettivi preminenti vendere quel patrimonio di cui dovrebbe invece garantire l’intangibilità o comunque il vantaggio sociale, il beneficio collettivo. Aziende e quote societarie, edifici e terreni, servizi comunitari, sanità, scuola, assistenza, beni culturali e naturali, mari, montagne, perfino paesaggi, l’acqua che beviamo, tra breve l’aria che respiriamo.
Siamo insomma nel pieno di quel processo di privatizzazione, in cui tutto (ma proprio tutto) diventa merce. È la definitiva abdicazione della funzione pubblica verso l’interesse privato. È il trionfo dell’economia sulla politica. È l’arricchimento di pochi e l’impoverimento dei tantissimi che restano deprivati.

Sta succedendo insomma che l’intero assetto statuale moderno (ex moderno) non è più in grado di assicurare quel ruolo terzo tra profitti e bisogni: un vero e proprio strappo nelle relazioni sociali, che sta sensibilmente cambiando la stessa tenuta civile, ovviamente in peggio. A dominare è la legge del mercato (meglio nota come legge della giungla), che informa di sé tempi, modi e pensieri della nostra società. E quel diaframma politico che in passato riusciva (anche se non sempre e non al meglio) ad attenuare, filtrare, selezionare, a volte compensare, la pressione del capitale oggi non assicura più la sua funzione, si auto-esclude, anzi favorisce i processi dominanti.

Non ci si sorprenda se poi, di fronte a questa poderosa offensiva dei più forti contro i più deboli, in assenza d’ogni mediazione politica, si sviluppano focolai di resistenza: nelle valli piemontesi o sugli altipiani siciliani, sulle coste pugliesi o nelle discariche campane, nella laguna veneta o sulle montagne lucane. O se nelle città si susseguono occupazioni di spazi vuoti o svuotati: palazzi, caserme, fabbriche e depositi, cinema e teatri, e anche campagne incolte. Non è forse una forma di legittima difesa contro l’avidità del profitto e, soprattutto, per preservare territori e ambienti, oltreché i propri destini?

È qui l’origine, è qui la ragione dell’occupazione del teatro Valle, come delle altre centinaia e centinaia di esperienze analoghe. Quando l’amministrazione pubblica dismette intenzionalmente il proprio ruolo di garanzia e lascia in abbandono ciò che dovrebbe salvaguardare, anzi valorizzare, si creano le condizioni per trasferirne il possesso a qualcun altro, e cioè al miglior offerente (che a volte coincide con amici e compari).

È un transito che appare quasi fisiologico, che infatti oggi viene perfino apparecchiato attraverso bandi pubblici, aste aggiudicatarie, trattative dirette. Non dovrebbe sfuggire a nessuno che con questo sistema gli unici che possono accedere agli acquisti siano soggetti forti o fortissimi. Non certo semplici cittadini o associazioni o movimenti. E dunque quel che ne deriva è sostanzialmente un’espropriazione privata di beni pubblici. Un atto del tutto legale. Non illegale come un’occupazione.

Viene da pensare a Calamandrei, quando sostentava che non tutto ciò che è legale è giusto, e non tutto ciò che è illegale è ingiusto. Anche perché nel prosieguo del processo di alienazione si verifica quel che ben s’intuiva fin dall’inizio: l’intento speculativo. Cosa che del resto è del tutto insita nelle dinamiche del mercato. S’investe cioè solo se c’è certezza di profitto. Tutte le privatizzazioni rispondono a questa logica. E l’elenco, dall’Ansaldo all’Alitalia, sarebbe lunghissimo. O, per restare a Roma, dalla Centrale del latte a Cinecittà.
Va bene così? Ci si deve rassegnare a questo avvilente e farisaico arretramento pubblico in favore del privato? A questo imponente saccheggio, da cui non deriva né sviluppo economico né redistribuzione sociale? Oppure è possibile esplorare e sperimentare nuovi modelli di valorizzazione sociale del patrimonio pubblico, per restituirlo alla sua propria funzione di bene comune, sulla scia delle nuove elaborazioni giuridico-costituzionali della Commissione Rodotà?

Se le amministrazioni locali, i Comuni metropolitani per esempio, avessero più coraggio e lungimiranza potrebbero collaudare politiche sociali e culturali più avanzate ed efficaci. Basterebbe sancire ciò che nella realtà già avviene, e che non è né pubblico né privato. Laddove negli spazi occupati si sviluppano una miriade di attività di servizio, accolte e frequentate dalle comunità circostanti. Dalle palestre alle biblioteche, dai centri-anziani al sostegno scolastico, dall’accoglienza all’assistenza sociale, dalla produzione culturale alle pratiche di cittadinanza. Tutti servizi che in teoria l’amministrazione dovrebbe assicurare, ma che da tempo non è più in grado (o non ha più voglia) di offrire.

Pensate se invece di minacciare sgomberi e rappresaglie, a quelli del teatro Valle avessero proposto di andare avanti così come finora era successo, con la sala sempre piena e un programma sempre smagliante. Invece, ottusamente, hanno ritenuto che anche l’eccezione, anzi l’eccellenza, dovesse rientrare nell’obsoleto schema istituzionale. Con il rischio (forse l’intenzione) di smorzarne la vitalità sociale, la tensione creativa, insomma l’entusiasmo originario.