L’occupazione è finita. Da ieri è diventata fondazione. Può sembrare un’astuzia, un espediente: un’acrobazia da palcoscenico, considerando che stiamo parlando del Teatro Valle di Roma, da ventisette mesi nelle mani di un gruppo di artisti imprudenti e avventati, indebitamente premiati per le loro sconsiderate gesta. E invece no, è una cosa seria, è un transito politico-giuridico che restituisce senso e prospettiva al lavoro culturale, finalmente liberato dalla mercificazione artistica e dalle incrostazioni burocratiche.

E’ un nuovo modello di gestione, incentrato su due cardini operativi. La democrazia e il lavoro. La democrazia come condivisione viva e conflittuale delle scelte, né plebiscitaria né maggioritaria. Il lavoro come energia produttiva egualitaria di tutte le figure impegnate nel ciclo, dagli attrezzisti agli autori. Una formula che in sostanza promuove l’autogoverno dell’attività teatrale: che poi, a sua volta, si articola nelle tante iniziative peraltro già collaudate: dalla produzione immateriale di testi, opere e musica all’organizzazione di convegni, seminari, confronti, dall’allestimento di spettacoli alla formazione, dalla ricerca espressiva alla relazione con la città.

Non sfuggirà il senso profondo di questa trasformazione, che è poi la coordinata principale intorno a cui si è sviluppata la definizione dello statuto di questa fondazione. E’ la cultura come bene comune, accessibile e fruibile, per tutti e tutte. Non più dunque il teatro come ambito chiuso, programmato e governato secondo le logiche escludenti di notabili e mandarini, di contabili zelanti e accademici compiacenti. Ma spazio accogliente e disponibile al lavoro creativo, al contributo intellettuale, alla critica artistica, al conflitto politico.

Siamo insomma nella scia della riappropriazione sociale di quel patrimonio collettivo che oggi è messo a rischio dalle politiche economiche dominanti, che intendono consegnarlo al mercato speculativo. Dall’acqua al paesaggio, dai beni culturali agli immobili, dai pacchetti azionari delle aziende pubbliche a intere porzioni di territorio. E lo stesso Teatro Valle, inteso come volume architettonico, fa parte di questo patrimonio, la cui proprietà è direttamente comunale.

Ora, con l’avvento di questo nuovo soggetto giuridico che è la fondazione, l’utilizzo del teatro si staglia in una nuova dialettica politica. Non siamo più in quello stucchevole tira-e-molla tra occupazione e sgombero, come decine e decine di spazi che a Roma vivono in questa straziante incertezza. Gli artisti del Valle si presentano oggi con una nuova proposta. Siccome il teatro è di tutti e solo incidentalmente appartiene al Comune, si tratta semplicemente di restituirlo ai legittimi proprietari attraverso un progetto di partecipazione e non più definendo assetti di gestione determinati da scelte unilaterali e spesso discutibili, o, peggio, svendendolo al palazzinaro di turno.

E’ la nuova frontiera dell’uso degli spazi pubblici, che in buona sostanza inaugura anche una nuova forma di legalità. Piuttosto che metterli all’incanto, o lasciarli nel degrado, questi beni vanno affidati a quei soggetti in grado di garantire la loro funzione collettiva. Attraverso la produzione di quei servizi, sociali e culturali, di tutte quelle cose insomma che l’amministrazione non è più nelle condizioni di offrire.
Si può fare. Al teatro Valle lo stanno facendo. E il bello è che funziona.