«Quando siamo realmente liberi? Quando gridiamo “viva la libertà” o quando balliamo in libertà?» si chiede Amir Haddad, drammaturgo brasiliano (nessuna parentela con Fernando Haddad, candidato del Pt alle ultime presidenziali) che quasi quarant’anni fa, durante la dittatura militare in Brasile, fondò la compagnia teatrale Tá Na Rua (Sulla Strada).

OGGI COME ALLORA, dopo il trionfo elettorale dell’ex capitano dell’esercito Jair Bolsonaro, Haddad propone di spezzare la paura che il fascismo cerca di installare nelle menti. Sfidare il regime guardando le persone negli occhi, ballando e cantando Cariñoso, una canzone romantica tra le più importanti del repertorio popolare del paese. Una forma di resistenza che punta a «combattere il linguaggio del teatro, che è sempre appartenuto alla borghesia», per imporne uno nuovo.

Il teatro del drammaturgo carioca ci apre le sue porte nel quartiere popolare di Lapa, nel centro di Rio. Da due ore il gruppo balla una canzone dopo l’altra, canta e improvvisa. Dal samba alla bossanova, dal valzer del Danubio Blu passando per Così parlò Zarathustra di Johann Strauss, fino all’inno antifascista Bella Ciao.

Un attore in pantaloncini e con una maschera sul volto a un certo punto prende una bandiera del Brasile. Haddad con voce soffocata chiede di fermare la musica. E inizia a parlare:

[do action=”citazione”]«L’America latina era bella e onnipotente, fino a quando non è apparsa la bandiera del Brasile e tutto è diventato verde-oro. Non è forse anche il Brasile America latina? Patria è un concetto fascista».[/do]

LA DITTATURA sembra qualcosa di familiare al regista e ad altri presenti nella sala. «Dagli anni ’60 – racconta Haddad ai suoi alunni, ora divenuti il suo pubblico – ho passato 25 anni sott’acqua, respirando con una cannuccia. Hanno approfittato di quel clima di fascismo per cacciarmi dalla scuola di teatro di Rio. Noi siamo figli della dittatura – aggiunge il drammaturgo – il nostro è un linguaggio nato per sopravvivere all’imposizione autoritaria, castrante, violenta, assassina della dittatura. Siamo nati da lì ma ne siamo l’opposto. Ecco perché la nostra non è solo una risposta a questo momento così orribile per il Brasile, è qualcosa che facciamo da sempre. È una permanenza».

Nel teatro di Amir Haddad a Lapa, Rio de Janeiro (foto Gianluigi Gurgigno)

 

DOPO DIVERSE ORE di improvvisazione il gruppo si dispone in un cerchio che finisce per essere uno spazio di catarsi: «Non sapete quanto ho pianto nelle ore successive al voto, mi sento come quando hanno fatto sparire mio fratello durante la dittatura. Io che salivo sulla terrazza del mio edificio a gridare al vento, e mia madre che mi diceva che quello che stavo facendo non aveva senso». Un’altra ragazza racconta che suo padre è depresso e «passa tutta la giornata al buio» per la situazione che vive il paese. Un altro partecipante, fisico da gladiatore dentro una tutina rossa che lo lascia a petto nudo, racconta come il teatro lo abbia salvato da un tentativo di rapina: «Mi hanno messo un revolver in bocca e la mia reazione è stata quella di ciucciarla. L’aggressore mi ha guardato, mi ha tolto la pistola dalla bocca, mi ha preso la testa e mi ha dato un bacio». Per questo «non potete smettere di fare quello che facciamo – incalza Haddad -. La cosa più politica che dobbiamo fare adesso è essere vivi, nelle case, a letto, in bagno».

NATO DA IMMIGRATI SIRIANI a Guaxupé, un villaggio del Minas Gerais, nel 1937, Amir Haddad si allontana subito dalla configurazione classica del teatro all’italiana. Alcuni associano Tá Na Rua al teatro di strada, «l’ultima tra le definizioni di teatro sui dizionari», ironizza lui. Nel suo essere fuori dagli schemi, Tá Na Rua conserva la relazione con gli elementi descritti da Mijail Bajtin riguardo alla cultura carnevalesca del Medioevo – la dissociazione spaziale e temporale, il ribaltamento delle gerarchie – con la differenza che la creatura di Haddad è al 100% carioca.

«Questa non è resistenza contro un un nemico preciso, è un’affermazione della vita, un avanzamento, il tentativo di mettere l’uomo in sintonia con la propria storia, di eliminare la camicia di forza dell’ideologia e vestire gli stracci colorati della fantasia. Il nostro lavoro è questo. Non ci sono parole di odio, né messaggi, è puro linguaggio. Crediamo che il linguaggio sia una forma di dominazione ma è anche ciò che può produrre un cambiamento. Shakespeare diceva che quando il linguaggio si indebolisce, la violenza prevale. Per questo lavoriamo sul linguaggio, perché crediamo che ci sia bisogno di rafforzarlo».

 

(foto Gianluigi Gurgigno)

 

In Brasile si diceva anche che quando il metodo è solo la protesta si sente vibrare la paura. E questo il fascismo lo percepisce. «Noi diciamo che non siamo una protesta – prosegue Haddad – bensì una proposta. Discutiamo con il Partito dei lavoratori (Pt) e il Partito del movimento democratico brasiliano), discutiamo con tutti perché siamo fuori dai giochi. Il nostro lavoro dura da 38 anni, ma non abbiamo mai ricevuto un appoggio ufficiale».

Il dibattito all’interno del cerchio continua e alcuni prendono addirittura nota sui cellulari. Nota 1: «Si tratta di rompere con i valori dell’ideologia dominante. Questo è il teatro che viene dopo il teatro, è un’altra cosa. Immaginate se i nostri genitori lo vedessero?». Nota 2: «Quando l’uomo entra in scena deve farlo con la sua ancestralità, non può entrare vuoto. È dall’ancestralità alla contemporaneità, e viceversa». Nota 3: «Dobbiamo recuperare la nostra indegnità perché non bisogna fidarsi delle persone che chiedono dignità», dice Haddad riferendosi criticamente ai discorsi moralizzatori di Bolsonaro.

IL TELEFONO INIZIA A SUONARE con una canzone di Martinho Da Vila: Canta, canta minha gente e tutti in coro: Deixa a tristeza pra là. Canta forte, canta alto, que a vida va a melhorar, metti la tristrezza da parte, la vita andrà meglio. Ora si capisce perché Amir Haddad all’inizio dell’intervista aveva detto «ringrazio tutti e me stesso per aver inventato un giorno questo lavoro».

traduzione di Gianluigi Gurgigno