La città dei vivi, l’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, racconta un puro, nudo fatto di cronaca: l’omicidio di Luca Varani avvenuto a Roma nel marzo del 2016. Sulla mia pelle, il film di Alessio Cremonini uscito nel 2018, ricostruisce la catena di crimini e misfatti che ha portato alla morte di Stefano Cucchi. Lehman Trilogy, l’ultimo spettacolo di Luca Ronconi, risale, grazie al testo di Stefano Massini, alle origini della crisi finanziaria che ha cambiato la faccia del capitalismo nel 2008. Il romanzo, il cinema, il teatro sanno a volte reagire con precisione e velocità, come sismografi fedeli, ai movimenti repentini della storia, spesso persino agli avvenimenti contingenti della cronaca. E la musica, in tutte le sue diverse declinazioni, è capace, oggi, di fare altrettanto? Riesce a parlare del tempo presente, ad essere uno specchio, magari infedele, deformante, deformato dei conflitti, delle aporie, delle contraddizioni in cui è immerso il tempo in cui viviamo? Inutile negarlo. La risposta è no.

Il teatro musicale, in particolare, che possiede tutti gli strumenti per mettere in scena «la trama della realtà», ha spesso voltato le spalle, nei primi vent’anni del Millennio, alle innumerevoli ferite inferte sul corpo del pianeta. E ha preferito, nella stragrande maggioranza dei casi, rifugiarsi nei territori confortevoli, a basso rischio, di temi e soggetti tratti dalla storia passata oppure in fonti letterarie ormai spente. Scelte legittime, si intende, spesso compensate da esiti felici, ma che rivelano uno strano disagio, un impaccio, se non un vero e proprio rifiuto a lasciarsi attraversare dalla contemporaneità. Non mancano ovviamente le eccezioni, ma nel complesso il teatro musicale, non solo quello italiano, si è dimostrato, al contrario delle «arti sorelle», assai restio a bruciarsi le dita al fuoco del presente.

Un «possente muschietto» di opere andate in scena in questi ultimi mesi dimostra però che si sta nuovamente affermando, in Europa, una prassi narrativa assai familiare al teatro musicale: quella di ricorrere ai procedimenti della metafora, dell’allegoria, del «travestimento» per mostrare in filigrana, senza esibirli platealmente, i dubbi, i crucci, i tormenti del tempo attuale. Tre opere in particolare che, forse non a caso, mettono in scena il corpo, la mente, le azioni di altrettanti archetipi femminili.

Printemps des Arts, il festival montecarlino diretto da Marc Monnet con uno sguardo sempre attento al teatro contemporaneo, ha presentato nel maggio scorso Snow on her lips, un’opera multimediale di Sebastian Rivas che mette al centro di una scena puramente virtuale la costruzione del corpo «sociale» della donna, un corpo «carnale», «fisico» che viene moltiplicato all’infinito, proiettato in una dimensione metafisica, dalla infinita «riproducibilità tecnica» operata dal suono e dall’immagine. Ravenna Festival, un altro prezioso laboratorio di contemporaneità, ha inaugurato l’edizione del 2021 con un’opera nuova di Mauro Montalbetti e Barbara Roganti: Teodora. Scalata al cielo in cinque movimenti.

Una «cerimonia sonora» celebrata nel labirinto della Basilica di S. Vitale che dà corpo, sostanza, vita, trascinandola giù dai mosaici della chiesa, alla figura controversa e inafferrabile della Basilissa: santa, imperatrice, donna di stato, ma anche attrice, prostituta e peccatrice. La stagione d’opera della Fondazione Haydn di Bolzano e Trento, un altro occhio spalancato sull’opera contemporanea, ha infine ospitato la felicissima ripresa di Alice di Matteo Franceschini, un’opera di sfrenata immaginazione visiva e sonora, in cui lo sguardo della protagonista, stupito, malinconico, febbrile irrompe con tutta la sua carica di surrealtà, nel quadro rassicurante di una presunta «normalità». Segno che il nuovo testo musicale, anche se sembra distogliere lo sguardo dal tempo presente, in realtà lo interpreta, lo mette in discussione, lo riflette con le armi della critica. Rinnovando la sua natura inevitabilmente, necessariamente «politica».