Da quel film sono passati ormai molti anni, era il 1996 quando Mario Martone provava sul palcoscenico del teatro Nuovo di Napoli I sette contro Tebe, regia a cui Teatro di guerra (1998) è intimamente legato. Si può anzi dire che uno rimanda all’altro, ne costituisce il complemento, e per questo Teatro di guerra tra le molte questioni che pone è anche una magnifica riflessione sul senso del fare teatro, o del fare cinema, sul rapporto tra la realtà e la sua messinscena.

 

 

 

 

Ora Teatro di guerra – che all’epoca era stato selezionato al Certain Regard del festival di Cannes – torna visibile in dvd (Lucky Red). Protagonista è un giovane regista (Andrea Renzi) che con la sua compagnia molto di ricerca prova I sette contro Tebe in un teatro dei Quartieri spagnoli, il cuore vecchio di Napoli. L’idea è di portare lo spettacolo nella Sarajevo assediata, una guerra fraticida come quella che narra il testo di Eschilo. Intorno ci sono altre piccole «guerre« quotidiane, i pochi soldi, le tensioni che scorrono sotterranee nella compagnia, la zona è di quelle considerate a rischio, ci sono i camorristi che si scontrano tra di loro, mentre il regista litiga con il direttore dello stabile cittadino che sostiene invece un teatro più convenzionale. Quello che a cena, dopo lo spettacolo, leggi le recensioni e «belli i costumi, bravi gli attori, belle le luci…».

 

 

A rivederlo oggi il film non ha perduto la sua forza di attualità, al di là della cronaca, per quell’interrogarsi sulla posizione dell’arte e dell’artista (e dell’intellettuale) rispetto ai propri tempi, tema che attraversa il cinema più recente di Martone, in modo aperto nella figura leopardiana del Giovane favoloso, e più corale nella disillusione degli ideali risorgimentali (e nel loro racconto critico) in Noi credevamo. E anche per il modo in cui esplora i limiti narrativi, spingendo l’immagine su un confine sempre più sfumato di «realtà» e «finzione». Tutto è messo in scena, tutto è vero, il gioco di entrate/uscite dalle prove, quanto accade fuori del teatro, gli umori, le emozioni, le vite dei personaggi, e i loro tentativi di resistenza. Le affinità tra la Tebe che prende forma in quella cantina, e la Napoli in conflitto eterno, quasi un archetipo della violenza, di una corruzione che aggredisce nel profondo ogni cosa.
«Ci tenevo moltissimo che il film uscisse in dvd, e in questo siamo stati aiutati dal successo de Il giovane favoloso. Teatro di guerra rappresenta un’esperienza unica, è stato realizzato con dei criteri molto particolari: all’inizio c’era lo spettacolo di cui abbiamo filmato le prove, intanto si iniziava a scrivere la sceneggiatura» racconta Mario Martone al telefono.

 

 

Rivedendo oggi «Teatro di guerra« si ha l’impressione che il film viva una dimensione universale. Forse anche per la scelta di tenere la guerra fuori campo e di cercarla nelle realtà più vicine a noi.
Le conseguenze delle guerre sono purtroppo sempre molto presenti, basta vedere cosa accade oggi con i migranti; sono persone che fuggono dalle devastazioni delle armi, e l’assurdo è che intorno a questa migrazione si fatica a trovare una risposta efficace. I focolai di guerra nella ex-Jugoslavia sono divampati ovunque, è un incendio che so esteso in molte parti del mondo. Anche per questo allora non ho mai pensato di filmare l’assedio di Sarajevo ma ho voluto spostare il film tra noi che vivevamo in pace, e che di quell’atto di guerra rappresentiamo l’altra faccia della medaglia.

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Il rapporto con il teatro che ritroviamo in molti altri tuoi film, diventa qui quasi un elemento narrativo.
È il mio cantiere, il cinema e il teatro richiedono un metodo di lavoro molto diverso e al tempo stesso sono per me comunicanti, si alimentano reciprocamente. Prima di girare Il giovane favoloso ho messo in scena Le Operette morali cosa che mi ha permesso di avvicinarmi all’universo leopardiano. Nel caso di Teatro di guerra però le cose sono un po’ diverse, lo vedo infatti come un unico «pezzo» in cui si concentra tutto: il lavoro a teatro e al cinema e i rapporti con la realtà. In genere provo a dare due volte fiducia ai testi, al cinema e al teatro mi piace mettere alla prova la loro capacità di essere una macchina del tempo per gli spettatori che non sono solo una massa indistinta di consumatori. E come hanno dimostrato gli ottimi risultati di Noi credevamo e de Il giovane favoloso il rapporto con il pubblico è importante.

 

 

 

 

Sin dal titolo «Teatro di guerra» suggerisce una battaglia, la ricerca di qualcosa che o può essere delusa. Al tempo stesso al centro c’è il gesto dell’artista.
Ciò che conta è la spinta alla lotta e non il suo compimento come la vita insegna e come Leopardi dice bene. Ma questa pulsione è anche un’assunzione di responsabilità. La disillusione in questo caso non diventa mai cinismo, è piuttosto uno sguardo lucido sulla realtà e insieme sulla forza delle illusioni. Quanto alla centralità dell’artista, mi piace raccontare il mondo che conosco, la spinta alla creazione nell’arte. Mi affascinano quegli artisti che sanno mettere la propria immaginazione a servizio del patrimonio collettivo.