Tutti uniti verso quello che definiscono l’11 settembre delle Fondazioni lirico sinfoniche, per ritrovare una posizione compatta e scongiurare il prevalere di un’ipotesi, o meglio un modello che rischia di diffondersi a macchia d’olio nelle altre realtà musicali italiane. L’incontro delle rappresentanze sindacali delle fondazioni lirico sinfoniche, convocato a Roma nella giornata di ieri ben prima dei licenziamenti collettivi annunciati dal sindaco Marino e dal sovrintendente Fuortes giovedì scorso, è stato travolto dalla questione Opera di Roma. Normalmente ci sarebbero state poche decine di rappresentanti, stavolta oltre cento persone.

La lettera di procedura per i licenziamenti di 182 orchestrali e coristi è arrivata e con essa la solidarietà da parte degli artisti dei complessi orchestrali italiani, Santa Cecilia e Teatro alla Scala in testa, mentre i rappresentanti delle varie sigle, pur fra posizioni diverse, sono tutti concordi nel considerare la vicenda dei licenziamenti da un lato questione locale nata e sviluppatasi in un contesto ben definito e specifico (a partire dalla questione dell’abbandono di Riccardo Muti), ma dall’altro come un pericoloso segnale in grado di aprire a breve una vertenza a livello nazionale i cui esiti potrebbero essere inaspettati. C’è preoccupazione e voglia di reagire.

Il documento unitario uscito dall’incontro chiede formalmente le dimissioni del ministro Franceschini, sollecita un incontro con la commissione cultura ma anche un percorso urgente di revisione giuridica della legge 106 (la cosiddetta legge Bray), considerata inadeguata, e lo sblocco del contratto nazionale firmato con i sovrintendenti dell’Assemblea dell’associazione nazionale delle Fondazioni liriche e sinfoniche (Anfols), e giacente al ministero. Inoltre viene chiesto un approfondimento sul ruolo delle banche nell’interno dei cda in relazione al verificarsi di fenomeni di anatocismo (interessi sugli interessi) che stritolano i conti dei teatri. A breve, annunciano i sindacati, sarà convocata una grande manifestazione nazionale. Non si esclude l’idea, proposta dalla Cgil di scioperi «al contrario», lavorando ma accantonando un fondo per acquisto di biglietti per la cittadinanza e di pagine sui quotidiani per spiegare la propria posizione. Sono in molti, infatti, in un’assemblea accesa ma tutt’altro che disordinata, a sottolineare come in un momento in cui il mondo del lavoro è pesantemente sotto attacco, i lavoratori dell’Opera di Roma si siano trovati soli, all’angolo, con una reazione di stampa complessivamente sfavorevole quando non ai limiti della denigrazione, comunque molto diversa rispetto a situazioni in cui provvedimenti gravi, ma diversi per portata e carattere (essenzialmente tagli al Fus), erano stati presi da governi di destra. In molti hanno lamentato attacchi basati su troppi «sentito dire», con storie di stipendi faraonici, indennità trasformate in privilegi assurdi e ridicoli (senza distinguere fra quelle necessarie e spettanti di diritto ai lavoratori, nonché previste nei contratti nazionali, e quelle utilizzate in modo improprio), demonizzazione dei lavoratori e della qualità artistica delle masse dell’Opera. Qualche voce ha ricordato la necessità di «far pulizia anche in casa propria», in modo che le sigle sindacali tornino a interpretare solo la voce dei lavoratori, ma nel complesso il timore generale è che ci si trovi dinanzi a un disegno che punta allo svuotamento dei teatri come centri di produzione culturale, per trasformarli in semplici contenitori di spettacoli a carattere episodico, con il prevalere di una logica di puro conto economico e di impresariato, ben diversa rispetto alla considerazione del teatro musicale nell’ambito delle attività protette dall’9 della Costituzione. La questione rimane aperta e probabilmente siamo soltanto all’inizio.