Ludwig Wittgenstein, nel trattare quello che è uno dei temi principali del suo capolavoro Ricerche filosofiche (1953), ovvero la teoria dei cosiddetti «giochi linguistici», sostiene – rovesciando un paradigma che può essere fatto risalire all’idealismo platonico – che nessun concetto ha carattere immutabile ed eterno, e che il linguaggio e il pensiero non sono mai lo specchio della realtà. Al contrario, essi sono strumenti che di volta in volta svolgono funzioni diverse, a seconda del tempo e del luogo in cui vengono adoperati. In altre parole, la stessa idea di «sedia» può significare una cosa nel contesto europeo del ventunesimo secolo e un’altra completamente diversa nella regione geografica di trecento anni prima. Per Wittgenstein la verità rimane prima di tutto una questione di prospettiva storica: i concetti e i linguaggi evolvono e mutano nel tempo, e ogni volta per l’uomo possono assumere significati diversi. Proprio da qui parte il saggio del filosofo britannico Roger L. Taylor Arte: nemica del popolo (Castelvecchi, pp. 144, € 17,50), un piccolo classico del pensiero critico anni settanta (è del 1978), oggi tradotto per la prima volta in Italia a cura di Paolo Martore.
La parola «arte» è sottoposta anch’essa alle regole dei giochi linguistici teorizzati da Wittgenstein. Taylor è da subito molto netto a proposito: «L’arte in realtà non riguarda la bellezza, il gusto o il talento; l’arte non è una categoria universale dello spirito. L’arte è un raffinato strumento concettuale, messo a punto in un preciso momento storico dai gruppi sociali dominanti allo scopo di tutelare i propri interessi di classe». Dunque, l’arte avrebbe una precisa data di nascita, proprio come se fosse uno strumento tecnologico o un brevetto. Secondo Taylor, infatti, è solo dopo il diciottesimo secolo che il termine «arte» assume il significato che noi tutti le attribuiamo. Prima, la funzione di questa parola, il suo «gioco linguistico», era ben diverso. Per esempio, nel Medioevo e nel Rinascimento con arte si intendevano tutte quelle abilità artigianali che implicavano grande tecnica, un certo gusto e un’utilità socio-economico ben definita. Al contrario, per Taylor, dal 1700 in avanti l’arte ha cominciato a diventare qualcosa come un simbolo, un’etichetta, un discrimine con cui separare le mode e i costumi popolari da quelli più elitari, ricchi, propri soprattutto della classe aristocratica prima e di quella borghese poi. Insomma, «la tesi di fondo qui è semplicemente che l’idea di arte non è universale e che si tratta di una forma di vita particolare, emersa in un momento particolare in risposta a una serie di esigenze sociali estremamente particolari».
E quali sarebbero queste «esigenze sociali»? Su questo tema – che poi rappresenta il cuore del libro – Taylor dimostra di essere, almeno in parte, fortemente in debito con Marx. L’arte, infatti, fin dalla sua nascita non avrebbe avuto altro scopo se non quello di favorire gli interessi di classe dell’allora nascente borghesia capitalistica. Un dispositivo raffinatissimo, ma con un obiettivo del tutto materiale: confermare e magari accentuare la distanza fra un popolo incolto e incapace di «comprendere» e una classe dominante più istruita, posta in una posizione di vantaggio proprio per la capacità di esprimere giudizi esteticamente educati.
Fra gli altri, Taylor porta l’esempio della musica jazz. Attraverso un’analisi prettamente storica, l’autore di Arte: nemica del popolo ricostruisce in modo puntuale la genesi di questo genere musicale, la funzione che agli albori dovette avere. Come noto, il jazz nasce nella profonda America dello schiavismo, specialmente nei bordelli e nei quartieri malfamati di New Orleans. Inizialmente, esprimeva una dialettica, un conflitto niente affatto scontato. La sua «anima» risiedeva nell’opposizione tra neri e bianchi, nel loro continuo scambio culturale e antropologico. Scambio, dunque, non solo opposizione. Perché, se da una parte il jazz esprimeva con la sua acidità e aritmia la frustrazione e la rabbia degli afro-americani, dall’altra con il suo andamento seducente e provocatorio alludeva all’invidia dei bianchi verso la superiorità fisico-sessuale dei neri. Una musica, dunque, nata dallo spirito vivo della società e della storia.
Per Taylor, successivamente, l’ingresso del jazz nei piani alti della cultura e della musica americane e mondiali ne avrebbe disperso definitivamente la carica erotica e il significato autentico, riducendolo a un semplice orpello da ostentare nei salotti buoni della ricca borghesia occidentale.
Vista in quest’ottica, anche la questione dell’arte contemporanea può assume caratteristiche precise. Indipendentemente dalle teorie estetiche e dalla storia dell’arte, l’artista diventa tale solo nel momento in cui comincia a far parlare di sé all’interno di un preciso circuito economico-intellettuale, quello messo in piedi da università, collezionisti, critici, galleristi ecc. È come se l’arte venisse decisa da un ristretto cerchio di persone benestanti, che per diversi motivi e interessi in un certo momento decidono che un’opera merita di venire definita tale. E in questa decisione il sentimento estetico della maggior parte della popolazione non gioca alcun ruolo.