Il progressivo processo di urbanizzazione ha da tempo posto l’attenzione sul tema della città e sulla sua futuribilità. La città è il luogo di scambio per eccellenza fra il singolo e la comunità, un luogo di confronto e di partecipazione, ma allo stesso tempo un luogo di conflitto, dove emergono problemi ai quali è necessario trovare soluzioni adeguate e sostenibili. Ed è proprio quello della sostenibilità il tema su cui da tempo si confrontano gli urbanisti.
Si tratta, tuttavia, di un tema dalle numerose implicazioni e dai molteplici approcci. Secondo Darko Radovic – ospite al convegno Urban Thinkers Campus che si terrà ad Alghero da oggi al 20 febbraio -, docente di architettura e disegno urbano alla Keio University di Tokyo, nonché uno dei principali sostenitori dell’eco urbanism, quello della sostenibilità è un concetto ambiguo, che si presta a diverse interpretazioni, e il cui significato viene spesso impoverito: «non si tratta di capire che cosa sia la sostenibilità, di qualcosa cioè di cui si discute da almeno trenta/quaranta anni. Si tratta piuttosto di riuscire ad applicare soluzioni sostenibili, in mezzo ai vari interessi economici che ruotano attorno ai progetti di sostenibilità».

Il punto di partenza dell’eco-urbanism, e di ogni politica urbanistica sostenibile è, infatti, un cambiamento di prospettiva teorica: «È necessario interrompere e invertire l’abitudine – prosegue Radovic – a pensare il rapporto città-natura attribuendo alla città solo qualità negative». La città non si oppone necessariamente alla natura, e soprattutto, all’interno di questa relazione non rappresenta affatto il male, come viene spesso dipinta dai paradigmi dominanti di una sostenibilità prêt-à-porter, «bisogna recuperare un concetto eticamente positivo di urbanità, che non sia alternativo alla sostenibilità ambientale, ma che al contrario la accolga come sua parte complementare, in un macro-progetto di sostenibilità culturale, ovvero urbana ed ambientale allo stesso tempo».

Diritto alla differenza

In altre parole, si tratta di rivendicare quello che il filosofo francese Henri Lefebvre ha definito il «diritto alla città», e reclamarlo come un «diritto alla differenza», alla diversità e all’autenticità dell’urbano contro i modelli dominanti imposti dalle logiche della città globale. L’attuale modello urbanistico è il prodotto diretto della logica economica neo-liberista: esso punta a creare città sempre più tecnologizzate, in modo da aumentare la competitività sociale e la produttività economica, e facendo così del progresso tecnologico ed economico il principale motore dello sviluppo urbano. Secondo Radovic «gli urban managers amano il modello della città digitale e tecnologica a tal punto che quello di Smart City è diventato ormai un nuovo mantra. Ma noi non dobbiamo dimenticare che la tecnologia è uno strumento, e non una soluzione».

designcitizens

L’obiettivo non è dunque creare città tecnologicamente all’avanguardia, ma adoperare gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione per estendere a tutti il diritto alla città, perché «al modello della Smart City si possa sostituire un modello di Smart Community, comunità intelligente e responsabile, un concetto di urbanità culturale in cui le capacità tecnologiche rappresentino non un fine in sé stesso, ma uno strumento per ottenere risultati di pubblico interesse per la comunità».

Per Mike Lydon, urban planner e principale animatore del movimento del tactical urbanism, «è necessario superare quelle strategie di pianificazione urbanistica che concepiscono la città, e con essa le singole persone che la abitano e la vivono, come un singolo organismo sociale, con le sue regole e le sue dinamiche perfettamente calcolabili e quantificabili, come se si trattasse di un insieme di dati matematici. Noi tutti sappiamo che non è proprio così». La città è un organismo complesso, servono strategie flessibili e a breve termine in grado di adattarsi a situazioni e a contesti urbani sempre nuovi e diversi. «Occorre agire su scala locale, in contesti che conosciamo e che ci sono prossimi, come i quartieri. E occorre impostare progetti a breve termine, così da ottenere risultati immediati, senza tuttavia perdere di vista gli obiettivi di scala più ampia, ispirando e promuovendo in tal senso un cambiamento a livello globale».

Il vero scopo è quello di riconsegnare ai cittadini il ruolo centrale nella creazione di edifici, strade, piazze, quartieri e città sostenibili, modellati a loro misura, sulla base delle loro esigenze. «Solo dando ai cittadini la responsabilità di creare e di plasmare secondo i propri bisogni la città in cui vivono – insiste Lydon – sarà possibile restituire a essi il diritto alla città».

tacticalurbanism1

Occorre pertanto una radicale messa in discussione dei modelli di sviluppo urbano. La sfida alla quale siamo chiamati a rispondere ha a che fare non tanto con la progettazione o la definizione dei criteri e degli standard per un ipotetico modello di città del futuro, quanto nella comprensione di quale possa essere il futuro della città, in modo che sia adeguato ai nostri bisogni e alle nostre esigenze.

In questa direzione si colloca anche Zaida Muxí, architetta e docente presso la Escuela Técnica Superior de Arquitectura di Barcellona: «il potere non ha bisogno di città intelligenti. Quello che serve al potere sono città stupide, e cittadini stupidi, annebbiati dalle logiche del consumo».

La città viene spesso stigmatizzata come un luogo di pericolo, di violenza e un contenitore di problemi di ogni genere: questo immaginario che la attraversa non è altro che un tentativo di distruggere le potenzialità e aperture che invece la città possiede. «Non ha molto senso domandarsi quale sia il modello ideale di una città del futuro perché quest’ultima, in quanto luogo di confronto, di diversità, di scambio e di conflitto sociale, è essa stessa il futuro». Il punto fondamentale per Muxí è che non si deve guardare alla diversità e al conflitto come a un orizzonte di cui liberarci; infatti «il problema più grave della globalizzazione è che essa ha generato una falsa percezione del conflitto sociale e dell’accesso alle opportunità. E questo vale in ogni ambito sociale, da quello economico a quello politico, passando per le questioni relative alla differenza di genere».

Un habitat di genere

La città fornisce determinate condizioni di esperienza, determinati modelli culturali e sociali, che a loro volta definiscono il nostro comportamento nella sfera pubblica e privata, come uomini e come donne: «Non bisogna dimenticare che il modello di riferimento che ha dato forma alle città e agli spazi urbani è stato, tradizionalmente, il modello maschile. Questo significa che le città sono state costruite senza porre attenzione alla differenza e alla molteplicità di bisogni e di esperienze, che hanno a che fare non solo con l’appartenenza sessuale ma anche con l’età, la cultura, la religione».
Il diritto alla città, pertanto, dovrebbe tenere conto delle differenze che stanno alla base della composizione sociale del «luogo urbano» stesso. Ciò di cui abbiamo bisogno è uno spazio abitabile in grado di comprendere l’enorme risorsa di questi conflitti e differenze, per creare un ambiente pubblico attivo, critico e partecipativo affinché il diritto si sostanzi dell’accessibilità di tutti e tutte.

 

SIMPOSI
Gli «urban thinkers» in Sardegna

 

Com’è fatta la città di cui abbiamo bisogno, ammesso che esista e sia non solo una utopia da archiviare? È la domanda alla quale si tenterà di rispondere al prossimo «Urban Thinkers Campus» che si terrà nel complesso Santa Chiara Muralla (Bastioni Pigafetta) dell’Università di Alghero , un tavolo di discussione che partirà oggi per arrivare al 20 febbraio.

«Open for Art»: una città aperta all’arte è una delle tappe italiane nel cammino che porterà l’Onu alla conferenza di Quito in Ecuador «Habitat III», in cui sarà definita la «Nuova Agenda Urbana». I ventotto «Urban Thinkers Campus», organizzati in tutto il mondo, forniranno alcuni degli spunti di riflessione per il principale documento che verrà poi sottoscritto a Quito il prossimo ottobre. L’appuntamento algherese (reso possibile grazie al lavoro della responsabile scientifica del progetto, la docente Silvia Serreli, e di quello dei dottori Giovanni Campus e Nadja Beretic) si concentrerà sull’arte come condizione critica necessaria per la bellezza e la qualità della vita, come strumento di riqualificazione e rigenerazione urbana, come occasione di sviluppo.

Il meeting ospiterà conferenze e dibattiti cui prenderanno parte architetti, urbanisti e docenti universitari da tutto il mondo, oltre a laboratori creativi, performances e mostre. Per maggiori informazioni. si può consultare il sito Internet:: www.openforart.eu