Le direzioni sono quelle richieste dai clienti ai tassisti, che vagano nella notte per le strade di Sofia con molte mete una dopo l’altra, che equivale poi a non averne neanche una.
E sono proprio dei tassisti i protagonisti di Directions – Tutto in una notte a Sofia di Stephan Komandarev, presentato quest’anno a Cannes in Un Certain Regard e in sala dal 27 novembre.
A non avere direzione, nella storia corale costruita dal regista, è la Bulgaria stessa – costellata di banchi dei pegni dalle insegne scintillanti come casinò, e dove una liceale fatta salire dal primo tassista del film, Misho, si cambia sui sedili posteriori per andare a prostituirsi. La storia di Misho – che guida il taxi per sopravvivere dato che la sua attività sta per venire pignorata dalla banca – è tratta da un fatto di cronaca realmente accaduto, e sarà il filo rosso che tiene insieme tutti gli «episodi» del film, che seguono cinque tassisti e i loro clienti: Misho infatti uccide il banchiere strozzino che lo ricatta, e poi si uccide.

L’unica notte in cui ha luogo Directions è scandita dalle chiamate degli ascoltatori alla radio per dire la loro su questo omicidio suicidio: complottismo, qualunquismo, l’occasione per tirare in mezzo i migranti «pagati per non fare nulla mentre i Bulgari muoiono di fame» – parole che suonano familiari in qualunque paese europeo.
Il regista racconta di aver tratto l’ispirazione per il film dall’incontro con un tassista, un professore di fisica che per arrotondare uno stipendio insufficiente esercita questa professione come capita a tantissime persone in Bulgaria. Ogni incontro fra tassista e cliente – che Komandarev racchiude in piani sequenza dalla prospettiva di un passeggero invisibile – aggiunge un tassello a quella che vuole dichiaratamente essere una disamina dettagliata del male che affligge il Paese: il divario incolmabile tra ricchi e poveri, l’assenza di uno Stato che tuteli i cittadini, la prepotenza e la quasi totale mancanza di empatia, l’emorragia di bulgari che scappano all’estero.

Ma i momenti più riusciti del film – appesantito da un didascalismo che è già nella dichiarazione d’intenti del regista – sono quelli in cui in un breve gesto, un’espressione sfuggente, un attimo, Komandarev sa cogliere in profondità la grettezza, la dinamica brutale della subalternità, o magari – al contrario – il barlume di un’umanità che resiste.