Ai tempi di Albert Camus, in pieno Novecento, l’omicida per caso, l’uomo che arrivava a uccidere senza premeditazione né tanto meno un movente, era immancabilmente un taciturno. Interrogato sulle ragioni, o taceva o forniva risposte laconiche e di una vacuità da lasciare sgomenti. Togliere la vita a un proprio simile, il crimine per eccellenza, assumeva così i contorni di un gesto dimostrativo, quasi una rivolta filosofica.

L’omicida uccideva non perché avesse conti in sospeso con una vittima che spesso neppure conosceva, ma perché in rotta con il genere umano nel suo complesso; perché nella vita, valore sacro inestimabile secondo il senso comune, vedeva soltanto un assurdo esistere. E assurdi – almeno sempre secondo il senso comune – apparivano infatti anche quegli omicidi, tanto che è lecito chiedersi fino a che punto possano definirsi tali. Da una prospettiva giuridica ovviamente sì, magari derubricandoli o stabilendone l’impunibilità perché commessi senza la capacità di intendere e volere; ma su un piano letterario e filosofico la questione si presenta sotto ben altra luce. Ecco allora che ai giorni nostri, uno di questi assassini, il protagonista di Noi, i sopravvissuti, romanzo di Tash Aw (traduzione di Anna Nadotti, Einaudi, pp. 290, € 20,00) arriva a dire, nonostante i sei anni di carcere scontati, che il suo «Non è stato un omicidio».

Artifici narrativi
Nato in un misero villaggio sulla costa occidentale della Malaysia, Ah Hock conosce soltanto ciò che ha visto e ha fatto. È tutto fuorché colto. Di certo non può avere letto Lo straniero e neppure Dostoevskij, che di un certo tipo di romanzi e personaggi è il capostipite. Nondimeno sembra possedere quel genere di malata sapienza o almeno vedere le cose in miniera simile. Malgrado la storia si svolga all’altro capo del mondo e descriva situazioni a stento comprensibili per il lettore occidentale, si ha l’impressione di sentirsi a casa. Crediamo di conoscere bene quella voce, perché crediamo di riconoscervi il tono inconfondibile dello straniero in patria nonché a sé stesso. Ah Hock ci parla sì da un mondo diverso, ma quanto? Il tardocapitalismo è una livella potente. Aspirazioni e frustrazioni di chi è costretto a sgomitare per tirare avanti sono ormai le stesse ovunque e, d’altro canto, anche la San Pietroburgo di Dostoevskij e l’Algeri di Camus apparivano lontane e esotiche a tanti lettori.

Eppure, una diversità c’è e va cercata non in ciò di cui Ah Hock ci parla bensì nel semplice fatto che ci parli in forma di romanzo. Una persona come lui, che presumibilmente non ha mai letto un libro, come potrebbe scriverne uno suo? A onor del vero, almeno in linea di principio, un quesito simile ce lo dovremmo porre anche a proposito di Meursault. Che lo straniero si chiuda a riccio con gli altri personaggi del romanzo ma decida di aprirsi con noi lettori non è difatti un controsenso? Se non dessimo per scontato, naturale e non problematico l’artificio della voce narrante, dovremmo rigettare come falsi centinaia di capolavori letterari.

Noi, i sopravvissuti comincia però così: «2 ottobre. Tu vuoi che parli della vita, ma io non ho parlato d’altro che di fallimento, come se fossero la stessa cosa…» Il narratore, che sembra rivolgersi direttamente a chi legge dandogli del tu, è anch’esso un dispositivo ben noto, benché ridondante e dunque meno praticato. Non è a noi che si sta parlando, però. Con il procedere del racconto scopriamo che il tu ha una precisa identità. È una sociologa di nome Tan Su-Min. Al rientro in patria dopo un periodo di studi negli Stati Uniti, questa giovane ricercatrice si interessa al caso di Ah Hock. Ciò che leggiamo sono quindi le trascrizioni di quanto l’omicida racconta nel corso di una serie interviste, in altre parole il materiale per un libro ancora in fieri. Ci viene così riproposto, seppure con una storia d’invenzione, un fenomeno ben preciso, quello dello scrittore che sveste i panni del romanziere per confrontarsi con una realtà oscura, perlopiù un caso di cronaca nera: quel filone che, a distanza di oltre mezzo secolo dal suo esempio più famoso, A sangue freddo di Capote, non sembra destinato a esaurirsi; basti pensare a L’avversario di Carrère o al recentissimo La città dei vivi di Nicola Lagioia.

Per molto versi, nel protagonista di Noi, i sopravvissuti confluiscono due modelli letterari, il romanzo e l’inchiesta, lo straniero e l’avversario, l’omicida immaginario e silente che in quanto voce narrante parla soltanto al lettore, e l’assassino in carne e ossa che per parlarci deve invece passare attraverso l’opera di mediazione di un autore. Ah Hock non è però un personaggio radicale come Meursault e il suo delitto non ha nulla di particolarmente efferato. La sua storia non può colpirci né su un piano filosofico né su quello misterioso del male. Acquista valore solo perché esemplare, perché comune a tante altre. È la storia di un uomo che ha provato a riscattarsi confidando nel sogno malaysiano e più in generale asiatico, per cui esistono soltanto due tipi persone: il ricco e il potenzialmente ricco. Che è come dire: l’economia gira e sta dunque a te, se non ce la fai è soltanto colpa tua.

E per un certo periodo il nostro eroe sembra anche farcela. Privo di qualunque istruzione, riesce a lasciarsi alle spalle il suo villaggio sperduto, a farsi una nuova vita tra i grattacieli di Kuala Lampur, salvo riprecipitare in disgrazia al primo cambio di vento. È la storia di chi vive in una società complessa quanto spietata e razzista, dove gli immigrati più o meno clandestini non si contano più e le condizioni di lavoro sono tali per cui sopravvivere alla fatica non è un fatto scontato neanche in giovane età: «Un giorno stai lavorando… alzi gli occhi e il cielo è bianco, niente foschia, un sole luminoso, e all’improvviso senti una stretta al cuore e caschi morto. Succede di continuo». Succede talmente di continuo che queste storie sono destinate a restare sommerse.

Brutalità a distanza
I protagonisti non hanno la voce per raccontarle e chi potrebbe dargliela le trova poco interessanti perché troppo comuni e soprattutto in contrasto con il sogno bugiardo del tardocapitalismo, che vede nel fallimento personale una colpa di per sé. Non fosse per il suo omicidio, neanche la vita di Ah Hock sarebbe emersa. Ironia della sorte, però, il delitto che gli dà luce è in fin dei conti un incidente di percorso; non qualifica l’assassino, tanto che lui non lo considera neanche un omicidio. È questa la contraddizione chiave di un romanzo che ne smaschera molte altre.

Sorretto da una scrittura magistrale e dalla traduzione efficace di Anna Nadotti, Noi, i sopravvissuti affronta nodi centrali del nostro tempo, e lo fa evidenziando ambiguità di non poco conto, sia sulla letteratura che vede lo scrittore sempre vincitore quando parla in nome di altri, che siano stranieri o avversari, sia sulle ragioni di noi lettori, incapaci di resistere al richiamo di realtà crude e brutali che contempliamo però in sicurezza, ingabbiate nella parola scritta, addomesticate in forma di storia, tenendole di fatto a distanza.