«Rivoluzione Zanj» (2013) dell’algerino Tariq Teguia è un film che ha «viaggiato» molto da noi, accompagnato nelle proiezioni dai suoi distributori italiani, Donatello Fumarola e Alberto Momo – cioè Zomia – i quali hanno poi pensato alla diffusione in rete – in collaborazione con Malastradafilm e FilmTV – e infine a farne una edizione Dvd con libretto uscita nel 2015 (link e info sono sul sito Zomia, il testo incluso è un raro libretto dell’Internazionale Situazionista, Ai rivoluzionari di Algeria e degli altri paesi). Ora, la presenza di Teguia come ospite all’ultima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, per un omaggio dedicato al suo lavoro dove si è avuto modo di (ri)vedere anche «Rivoluzione Zanj», offre l’occasione per ritornare a ragionare su questo film e, di conseguenza, sulla visione dell’uomo che l’ha diretto.

Al centro di «Rivoluzione Zanj» c’è un discorso sull’«utopia di una rivoluzione pan-araba di cui Egitto, Tunisia, Yemen potrebbero rappresentarne l’inizio», come si legge nella trama della scheda tecnica del film (e la mente corre alla Primavera araba). La narrazione – come già suggerito in molti articoli – è contemporanea, lo sguardo si muove in modo asimmetrico e come se circoscrivesse il Mediterraneo, da una parte all’altra, tra Algeria, Beirut, Grecia, seguendo il lavoro di un giornalista algerino, la sua riscoperta di «tracce delle antiche e dimenticate rivolte contro il califfato degli Abbasidi, avvenute in Iraq tra l’VIII e il IX secolo e storicizzate come rivoluzioni Zanj dal nome degli schiavi negri che insorsero», il suo arrivo a Beirut e il suo incontro lì con una profuga palestinese «in seguito rifugiatasi in Grecia.» Questo per dare una traccia di base. Ma il film è – appunto – altro, è cinema, e quindi si muove su piani che modellano un pensiero specifico, per così dire tra teoria e prassi.

Prima di tutto perciò questa domanda: come Teguia pensa la rivoluzione? Schematicamente, la combinazione di una messa in scena che non affronta in modo centralizzato possibili rappresentazioni di scontri insieme al riferimento alla questione degli Zanj è rivelatrice, suggerisce la necessità di radicalizzare una idea di rivoluzione dentro una Storia di lunga durata e aperta, se si vuole, alle suggestioni della lezione di uno studioso d’immagini come Aby Warburg.

Da qui si può allora andare al pensiero visivo «all’opera». Al di là del riferimento diretto nel film e già puntualizzato da più parti «Rivoluzione Zanj» è sicuramente un lavoro godardiano per come mette a fuoco determinate «situazioni». Ma la forma godardiana come modello è, se si vuole, un rimando verso un ulteriore ritorno all’«origine», alla fotografia. Per la narrazione viene allora in mente il modo di vedere di un Robert Frank – studiato dallo stesso regista, fotografo lontano dal «momento decisivo». Per la rilevanza iconica sembra invece uno sguardo che ricorda, qua e là, quello di una Susan Meiselas.