Da tre giorni Taranto è assediata da una puzza di gas che rende l’aria irrespirabile. Ma questa volta l’Ilva non c’entra. Perché quell’odore inconfondibile appartiene, da sempre, alla raffineria Eni distante dal siderurgico pochi chilometri. L’allarme scatta lunedì pomeriggio, quando un violento nubifragio abbattutosi sulla città manda in blackout energetico la raffineria: immediata scatta la procedura di sicurezza, con il gas presente nelle condutture che viene convogliato e bruciato nelle torce, onde evitare esplosioni che causerebbero un disastro di immani e incalcolabili proporzioni. Il fenomeno provoca colonne di fumo nerissime ben visibili anche a diversi chilometri di distanza.

La raffineria, che è alimentata dalla centrale Enipower a olio combustile (costruita nel 1966) e dalla rete elettrica nazionale, a tutt’oggi non è ancora indipendente dal punto di vista energetico. Al blocco degli impianti a monte, corrispondeva a valle quello del depuratore che ha scaricato in mare reflui provenienti dalle acque di raffreddamento degli impianti contenenti sostanze oleose e tracce di idrocarburi. La «macchia» in mare di cui si è parlato molto su giornali e siti Internet in questi ultimi giorni.
Ma se il danno a mare è stato contenuto sin da subito, grazie al tempestivo intervento di Capitaneria di Porto e addetti della società Ecotaras specializzata per questo tipo di fenomeni, ben diverse sono state le conseguenze per le emissioni nell’aria.

Sia martedì pomeriggio che nella notte di mercoledì, infatti, diversi quartieri della città sono stati invasi da una puzza di gas nauseabonda, derivante dalle sostanze riversatesi in acqua e dalla lenta ripartenza di alcuni impianti dopo il blackout. Tantissimi i cittadini che hanno avvertito malori: ben sette sono finiti in ospedale. L’Eni, dal canto suo, sostiene che la situazione è assolutamente sotto controllo e che non si è verificato alcun danno ambientale. Ma i fenomeni verificatisi nelle ultime ore, non sono certo una novità per Taranto. L’ultimo in ordine di tempo è avvenuto il 17 giugno. Cinque volte soltanto nel mese di maggio. Casi analoghi a ottobre e lo scorso agosto.

Il fenomeno si registra specie quando il vento spira dal settore 4 (Ovest-Nord Ovest) che favorisce lo spostamento di masse d’aria dalla zona industriale verso la città. Ma se è vero che gli esami svolti da Arpa Puglia, attraverso i dati registrati dalle centraline, non hanno mai evidenziato il superamento dei valori limite degli inquinanti monitorati (diossido di azoto, anidride solforosa, monossido di carbonio, benzene, ozono e Pm10), è altrettanto innegabile la ripercussione di questi fenomeni sulla salute dei cittadini. Questo perché l’indagato principale è il solfuro di idrogeno (H2S), composto dello zolfo molto odoroso a basse concentrazioni (causa affaticamento, perdita dell’appetito, mal di testa, disturbi della memoria e confusione), per il quale non esiste limite di legge per la concentrazione in aria ambiente.

L’acido solfidrico è estremamente velenoso. Una prolungata esposizione a esso può essere mortale. Ma incredibilmente l’Eni, così come avvenuto la scorsa settimana in Commissione Ambiente al Comune, continua a negare ogni addebito, sostenendo che dai dati in suo possesso non ritiene di essere il soggetto responsabile delle emissioni del solfuro di idrogeno.
Per vederci chiaro, la Procura di Taranto ha aperto lo scorso mese un’indagine a carico di ignoti per getto pericoloso di cose: al momento non figura nessun indagato, ma sono diverse le persone già ascoltate dal pool ambientale della magistratura. Anche i ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente hanno avviato due indagini conoscitive parallele a quelle della magistratura.