Quando l’ex capo della diplomazia europea Federica Mogherini affrontò con Aung San Suu Kyi il dossier Rohingya, la minoranza musulmana espulsa dal Myanmar in Bangladesh, si dice che la Lady abbia risposto con una smorfia: «internal matters», la stessa frase che ha utilizzato oggi la Thailandia per commentare il golpe di Naypyidaw.

Non si sa invece cosa abbia risposto al papa, incontrato a san Pietro dopo un colloquio con Gentiloni, in cui il governo italiano era stato zitto sulla questione. Il pontefice invece no. Chi la ha dato retta in Europa è stato solo Orbán, non esattamente un viatico spendibile.

Caduta in disgrazia presso governi e opinione pubblica in Occidente, proprio adesso la Nobel birmana avrebbe bisogno invece di un appoggio. Che non le è mancato dalle ambasciate occidentali ma che in queste ore è più flebile di quanto non lo sarebbe stato prima della grande crisi rohingya del 2012-2017, su cui pesa un’accusa di genocidio alla Corte di giustizia dell’Onu.

La Lady è sola, di nuovo agli arresti domiciliari e in una situazione che, a sentire le voci dei birmani, è di estrema sofferenza per lei come per un popolo che – più di 8 persone su 10 – l’ha votata. Se è il momento di fare i conti con le luci e le ombre del suo quinquennato da «de facto premier», si fa presto a enumerarle. Le ombre sono note: la questione rohingya, un nome che la Lady non ha mai nemmeno voluto pronunciare e il sacrifico di un milione di musulmani – si è detto – per salvare 50 milioni di birmani.

Una scommessa persa, come ora si vede, perché in realtà il Myanmar è sempre stato ostaggio degli uomini in divisa: padroni di conglomerati, miniere, società, persino della birra più venduta nel Paese. Sul tavolo del ristorante come nei banchetti delle ambasciate.

Se la Lady è sola, i militari non sono in buona compagnia. Il processo di pace con le entità etniche regionali, vera luce dell’operato della Lady, rischia il collasso e si rischia l’ennesimo isolamento internazionale, che non fa bene né agli affari né a un consenso già al lumicino. C’è l’amicizia di un occhiuto protettore cinese e quella di un amabile zar delle Russie, forse persino quella di un premier indiano (che aveva già ventilato l’espulsione di 40mila rohingya).

Ma scontrarsi con l’Occidente non fa bene e persino l’Asean sebbene sempre fedele al mantra degli internal matters, storce il naso. Quel pezzo di continente, già in affamo per la guerra commerciale (e di portaerei) tra Cina e Usa, ha un altro mantra: stabilità. Tatmadaw saprà garantirla?

Se i generali agiscono con intelligenza politica, non useranno le maniere forti né faranno nuovamente della Lady una martire. Se sono furbi, libereranno gli arrestati mettendoli sotto stretta sorveglianza per poi organizzare «libere» elezioni con una Commissione elettorale eterodiretta. Potrebbero persino far tornare Aung San Suu Kyi, dimezzata, sugli scranni del parlamento. Ma con un patto chiaro tra civili e militari su chi comanda davvero in Myanmar.