Specialmente con l’avvento della modernità, a partire dall’opera di esordio di Natsume Soseki Io sono un gatto, la letteratura giapponese sembrerebbe riservare ai felini un posto speciale. Proprio con il gatto di Soseki, che rivendica prepotentemente la propria individualità felina usando il pronome wagahai, cioè «io», il cui suono già allora era antiquato e pomposo, costringendo il lettore a guardare il consorzio umano dal suo impietoso punto di vista, si inaugura una lunga serie di ritratti gatteschi.

Uno dei più brillanti allievi di Soseki, Uchida Hyakken, diede fama letteraria all’amatissimo gatto domestico con uno scritto elegiaco in cui racconta i suoi vani tentativi di ritrovarlo. A differenza dell’innominato protagonista felino del romanzo del suo maestro, in quest’opera il nome dell’animale compare già nel titolo Oh, Nora, e lungi dall’essere una citazione ibseniana significa invece «randagio».

Anche Murakami Haruki ha utilizzato spesso i felini come espediente narrativo: nel suo L’uccello che girava le viti del mondo, ad esempio, è proprio la scomparsa del gatto del protagonista a innescare gli eventi che danno forma a una trama complessa; mentre, in Kafka sulla spiaggia, è il ritrovamento di un gatto da parte di uno dei due protagonisti, un uomo che riesce a comunicare con i felini, a dare avvio alla sua avventura.

La presenza dei gatti nella letteratura giapponese è insomma un dato incontrovertibile, basterebbe anche solo guardare ai romanzi tradotti negli ultimi anni. Nel Gatto venuto dal cielo di Hiraide Takashi, la protagonista felina vince le resistenze di una giovane coppia e da ospite sgradita diventa parte del ménage familiare. In Cronache di un gatto viaggiatore di Arikawa Hiro, il viaggio del protagonista per affidare il suo amato Nana a qualcuno che possa prendersene cura è in realtà un cammino verso la consapevolezza dell’inscindibilità del loro legame. E, ancora, la prospettiva inquietante evocata da Kawamura Genki nel suo Se i gatti scomparissero dal mondo conferma l’indispensabilità dei felini nelle nostre vite.

Una dinamica banale
Non sorprende quindi che anche uno dei più noti e tradotti maestri della letteratura giapponese, Tanizaki Jun’ichiro, abbia dedicato un suo spassoso racconto a un esemplare della razza: una nuova traduzione ci restituisce il fascino senza tempo di La gatta, Shozo e le due donne (a cura di Gianluca Coci, Neri Pozza, pp. 128, € 17,00). Ambientata ad Ashiya, una cittadina nei pressi di Kobe, la storia fu pubblicata nel 1936; tuttavia, forse perché i decenni trascorsi hanno portato miglioramenti tecnologici senza però mutare sostanzialmente i modi di interazione umano-felina, è impossibile non sorridere mentre ci si immedesima nelle dinamiche che coinvolgono la gatta e i vari personaggi. Del resto, Tanizaki, oltre a essere un fine conoscitore della natura umana, era anche un grande amante dei felini, e molti ne tenne con sé nel corso della sua vita.

La gatta Lily è al centro di una disputa tra Shozo e l’ex moglie Shinako, da cui si è malamente separato per sposare un’altra donna. Dopo aver sopportato l’indolenza dell’uomo e le angherie della suocera, dando fondo anche ai risparmi di una vita, Shinako è stata allontanata senza tanti complimenti e vorrebbe almeno tenere la gatta come ricordo. La nuova moglie, Fukuko, è combattuta tra l’avversione per quella donna alla quale ha sottratto il marito e la scarsa simpatia per l’animale, di cui si libererebbe volentieri. Shozo è infatti attaccatissimo a quella gatta, forse addirittura più che alla moglie, tanto che le sue incessanti moine alimentano continuamente la gelosia della donna.

Cambi prospettici

Di razza europea, Lily ha un manto tartarugato che, agli occhi dell’uomo, le conferisce «un aspetto molto elegante, paragonabile a quello di una donna bella e raffinata», e la sua ritrosia, tipica dei felini, è per lui oltremodo seducente.
A completare il quadro si aggiunge Orin, la madre di Shozo, una donna avida e calcolatrice ma preoccupata di assicurare un futuro a quel figlio tanto scapestrato, che illude e manovra a suo piacimento. Con continui cambi di prospettiva, Tanizaki tratteggia la complessa rete di rapporti tra Shozo e le tre donne, dei cui intrighi sembra essere succube. Ma è davvero così? O la sua remissività è invece un abile stratagemma per eludere il matriarcato e soddisfare i propri capricci?

Nonostante le vicende narrate non abbiano nulla di particolarmente straordinario, in questi tempi di isolamento casalingo, magari in compagnia degli amati animali domestici, conviene riassaporare il racconto di Tanizaki, che merita sia per la maestria narrativa sia per il suo stile inconfondibile, entrambe qualità che lo rendono un piccolo gioiello capace di sfidare il trascorrere del tempo.