Dopo essersi presi il Nord, il Sud e l’Ovest del Paese, ora i Talebani conquistano anche importanti porzioni di territorio nell’Est dell’Afghanistan. E si avvicinano progressivamente a Kabul, bottino politico principale. È qui che il presidente Ashraf Ghani, 25 anni negli Usa tra prestigiose università e Banca mondiale, fatica a riconoscere il fallimento del progetto in cui ha a lungo creduto, una volta tornato in Afghanistan.

RETTORE DELL’UNIVERSITÀ di Kabul, ministro delle Finanze, poi responsabile nel 2013/14 della transizione della sicurezza dagli stranieri agli afghani, autore di saggi accademici su come ricostruire gli Stati falliti, di fronte al presidente della Repubblica islamica si sgretola lo Stato afghano, foraggiato per venti anni con risorse superiori alla capacità di assorbimento dei canali istituzionali. Risorse finite perlopiù in corruzione.

I Talebani controllano oggi 21 dei 34 capoluoghi di provincia e si avvicinano progressivamente a Kabul, ultimo obiettivo dell’offensiva militare iniziata a metà aprile, quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha confermato il ritiro incondizionato dall’Afghanistan, che si concluderà il 31 agosto. Il vero obiettivo dei Talebani è Kabul.

SONO TRE GLI SCENARI più plausibili: un lento strangolamento, frutto dell’accerchiamento, dell’interruzione delle linee di rifornimento verso la capitale; la spallata militare, che però comporterebbe una guerriglia urbana particolarmente sanguinosa, in una città da 6 milioni di abitanti e così densamente popolata. Oppure la progressiva cooptazione di singoli leader politici, che potrebbe già essere avvenuta, in parte. Sono mesi che i Talebani negoziano in modo bilaterale con i principali attori e gruppi politici, per portare dalla propria parte i più pragmatisti e alimentare le divisioni del fronte governativo.

UNA STRATEGIA che mira alle dimissioni del presidente Ghani e alla formazione di un governo a interim, di transizione, in carica il tempo necessario per trovare la nuova formula politico-istituzionale di compromesso.

Nel discorso di ieri alla nazione, il primo da quando, due settimane fa, è cominciata l’offensiva militare dei Talebani sulle città, Ghani ha sostenuto che il suo compito è quello di ri-mobilitare le forze di sicurezza, evitare ulteriore instabilità e occuparsi della grave crisi umanitaria in corso. Non si è ancora dimesso, ma è la prima volta che allude a questa possibilità, fin qui derubricata come un cedimento delle stesse istituzioni repubblicane, che immagina di rappresentare.

L’ipotesi di un governo a interim non è nuova: se ne parla da più due anni. Washington voleva infatti evitare le elezioni presidenziali del settembre 2019, in favore di una simile soluzione. Ma Ghani ha insistito, con l’idea di sedersi poi al tavolo negoziale con i Talebani da una posizione di forza. È andata diversamente: le elezioni sono state disastrose, viziate da brogli, contestazioni e da un dissidio fortissimo tra i due principali sfidanti, Ghani e Abdullah Abdullah, l’uomo che oggi, come capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, ha il compito di strappare ai Talebani qualche residua concessione, a Doha. Se soltanto tre mesi fa i Talebani non potevano rivendicare più del 40 per cento del potere, oggi dettano le regole della partita.

La vicenda di Ismail Khan aiuta a capire cosa potrebbe succedere nel futuro prossimo. Il signore della guerra, tra i mujahedin protagonisti della guerra contro l’occupazione sovietica negli anni Ottanta, poi governatore della provincia di Herat, è stato fondamentale nel mobilitare e organizzare le milizie anti-talebane nei giorni scorsi. Catturato infine dai Talebani, ora il suo volto e i suoi audio vengono usati dalla propaganda degli studenti coranici per dimostrare che un compromesso si può trovare, perfino con i più acerrimi nemici. Si vedrà nei prossimi giorni se questa strategia di cooptazione avrà successo.

PER ORA, GHANI pensa a proteggere la capitale, da dove partono in tutta fretta i diplomatici stranieri. La sicurezza nella provincia è ora nelle mani del tenente generale Sami Sadat, che nelle scorse settimane ha provato inutilmente a fermare i Talebani a Lashkargah e Kandahar. Kabul dovrebbe tenere più a lungo, ma le pressioni arrivano da ogni direzione. Anche dall’est, dove i Talebani hanno conquistato le province di Paktia e Kunar. L’est è l’ultima zona di conquista dei militanti islamisti. Non è un caso: qui alle ultime elezioni presidenziali Ghani ha ottenuto i voti maggiori. Comunque pochi: su 35 milioni di abitanti, ha raccolto in totale poco più di 1 milione di voti. Il confine orientale è anche l’area in cui Islamabad non vuole troppi problemi. Zona di traffici transfrontalieri, di commerci leciti e illeciti, di qua e di là della Durand Line – il confine stabilito a tavolino alla fine dell’Ottocento e mai accettato dall’Afghanistan – ci sono campi di addestramento di jihadisti.

CON LA CONQUISTA del potere da parte dei Talebani in Afghanistan, Islamabad – tradizionale sponsor e alleato degli studenti coranici – incassa un indubbio successo politico, anche se Washington si aspettava che il Paese dei puri convincesse i Talebani a negoziare davvero, non a capitalizzare militarmente le ingenuità diplomatiche dell’inviato di Trump e poi di Biden, Zalmay Khalilzad. Islamabad sa che il rapporto con Washington è importante ma sa anche che, con il ritiro delle truppe, saltano gli equilibri regionali: ora conta più Pechino che Washington, nell’area. Allo stesso tempo, il Pakistan sa che quella dei Talebani potrebbe rivelarsi una vittoria controproducente, se il loro successo alimentasse le spinte anti-governative dei Talebani pachistani e degli altri gruppi che contestano il primo ministro Imran Khan.

Che pochi giorni fa è tornato a farsi megafono della posizione dei Talebani: fino a quando ci sarà Ghani al potere, nessun compromesso è possibile. Il tecnocrate-presidente dovrà prendere una difficile decisione, nelle prossime ore, proprio alla vigilia del giorno dell’indipendenza dagli inglesi conquistata nell’agosto 1919 da re Amanullah Khan.