I Talebani offrono un’amnistia ai soldati afghani. O almeno così dicono. La dichiarazione ufficiale è di due giorni fa ed è stata presentata come «un’opportunità d’oro» per tutti i funzionari governativi, in particolare per chi opera nelle forze di sicurezza. Una scelta dettata da princìpi umanitari, che arriva all’inizio del sacro mese del Ramadan.

NELLE ULTIME SETTIMANE in tanti, qui a Kabul come nelle province periferiche, hanno invocato una tregua, almeno per il Ramadan. Gli scontri però continuano in tutto il Paese. I Talebani minacciano attacchi ancora più duri, ma tengono conto della richiesta di pace. Almeno sulla carta. La loro amnistia, infatti, è condizionata.

La dichiarazione con cui l’hanno resa pubblica comincia con un bilancio dell’offensiva Al Khandaq, la campagna di primavera lanciata alcune settimane fa «contro gli invasori americani e i loro sostenutori interni». Come prevedibile, rivendicano successi: «ampie regioni sono state ripulite dal regime servile e il nemico è stato constretto a una debole postura difensiva», con la perdita «di decine di soldati sulle linee del fronte, ogni giorno». Ed è proprio a quelle decine e decine di soldati che si rivolgono i Talebani. «Sono nostri connazionali che si sono uniti agli americani a causa di cattivi consigli e di altre ragioni».

HANNO MOGLI, FIGLI, FAMIGLIE intere, lasciano intendere. Proprio a causa «della sofferenza per le famiglie afghane, l’Emirato islamico dichiara un’amnistia generale» rivolta a «tutte le formazioni militari, all’esercito nazionale, alla polizia, alle milizie Arbaki e a tutti i funzionari del regime, così da salvaguardarne le vite e la salute».

LA DECISIONE appare clamorosa. Ma ci sono alcune precisazioni che ne rendono chiara la natura: un espediente politico e di propaganda, non una scelta «umanitaria». Il primo punto è esplicito: disertate! Abbandonate i ranghi e vi garantiremo l’immunità, dicono i Talebani ai membri delle forze di sicurezza. Che possono salvarsi, sì, ma a condizione che disertino. Il secondo è un argomento religioso. Gli americani sono «nemici storici dell’Islam, del Corano e dell’Ummah» islamica. Pentitevi, perché servendo negli stessi ranghi degli infedeli compite un peccato gravissimo, rischiando «di trovarvi nell’al di là insieme a Bush, Obama e Trump».

INFINE, GLI STUDENTI CORANICI usano un argomento cruciale: la disillusione verso il governo, la distanza tra chi governa (avendo cura di «trasferire la famiglia all’estero») e chi deve sbarcare il lunario, tutti i giorni. In poche parole: perché sacrificare la vita «per governanti così corrotti e immorali?». I seguaci del maulawa Haibatullah Akhundzada non rinunciano dunque alla lotta armata, né avranno cura di risparmiare le vite dei soldati, ma puntano a combinare la componente militare con quella politica: indebolire il governo, facendo crescere la percentuale (già alta) delle diserzioni.

IL MOMENTO È GIUSTO: la fiducia della popolazione è ai minimi termini. Il governo di unità nazionale rimane inefficiente e corrotto. I barbuti provano a togliergli la terra da sotto i piedi. Si rivolgono a una platea ampia e decisiva, anche se i numeri sono incerti. Il 30 aprile il Sigar – l’Ispettorato che fa le pulci per il Congresso Usa sui soldi spesi in Afghanistan – comunicava che il totale delle forze di sicurezza afghane era di 296.409. Poi è arrivata la rettifica: 313,728. Il dipartimento della Difesa Usa aveva fornito numeri sbagliati. In realtà, nessuno conosce quali siano i numeri reali, gonfiati in passato. E nessuno sa in cosa consista di preciso l’addestramento e l’assistenza che le truppe straniere – incluse quelle italiane – forniscono a quelle locali. Quel che è certo è che sbaglia la portavoce del Pentagono, Dana White, quando sostiene – come fatto il 17 maggio – che i «Talebani sono disperati». Al contrario, minacciano città importanti come Farah e Ghazni e intere province come quella nord-occidentale del Faryab. E possono permettersi perfino di fare propaganda umanitaria. L’obiettivo è accreditarsi come fazione moderata rispetto ai radicali della «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico.