A corto di soldi, di fronte a una crisi economica e umanitaria sempre più grave, i Talebani chiedono lo scongelamento delle riserve della Banca centrale afghana con sempre più insistenza. Trovando sponde dentro e fuori dal Paese. Pochi giorni fa, a reiterare la richiesta già avanzata dal ministro degli Esteri, mullah Amir Khan Muttaqi, è stato Sherbaz Kaminzada, il direttore della Camera di commercio per l’industria e le risorse minerarie.

DOZZINE DI PERSONE hanno invece manifestato ieri a Kabul, con cartelli in inglese in cui accusavano Washington di mettere a repentaglio la vita di milioni di afghani. Subito dopo la presa del potere dei Talebani del 15 agosto scorso, il governo degli Stati uniti ha infatti congelato le riserve afghane – intorno ai 9 miliardi di dollari – depositate negli Stati uniti. Ha poi sollecitato il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a sospendere i prestiti. L’economia, già in forte contrazione, è caduta a picco. Le banche afghane hanno introdotto limiti al prelievo dai bancomat. Le file fuori dalle banche si sono fatte sempre più lunghe.
Le difficoltà per acquistare beni primari, il cui prezzo è raddoppiato, sono cresciute anche per le famiglie della classe media, ha ricordato Mary-Ellen McGroarty, direttore nel Paese dei programmi della Fao, l’organizzazione dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura.

LA PROTESTA DI IERI è stata organizzata dalla Società afghana dei giovani musulmani Najm, che rivendica 3.000 membri in 31 delle 34 province. Altre piccole manifestazioni, sempre della Najm, si sono tenute nella provincia settentrionale di Baghlan e in quella occidentale di Herat. Tra gli slogan, uno recita: «Gli Usa e l’Onu sono in debito con l’Afghanistan. È ora che paghino il loro debito».

Uno slogan che è molto simile alla posizione del governo cinese, tra gli attori esterni quello che in modo più esplicito, insieme al Qatar, sta esercitando pressioni affinché i Talebani possano disporre di ciò che «è dell’Afghanistan, non degli Stati uniti».

INDICATIVO IL DISCORSO tenuto due giorni fa dal ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, al G20. La responsabilità primaria è della Nato e degli Stati uniti, ha sostenuto il ministro. Pechino non intende sborsare e accusa indirettamente Washington di usare le riserve estere «come moneta di scambio per esercitare pressioni politiche sull’Afghanistan». Quelle pressioni che Mullah Nooruddin Turabi, già ministro della Giustizia e del ministero per la Promozione della virtù al tempo del primo Emirato e oggi responsabile delle carceri nel Paese, ha denunciato come illecite in un’intervista all’Associated Press. In cui aggiunge che è necessario tornare a punizioni «esemplari» come il taglio delle mani per i ladri e le esecuzioni capitali.

«NESSUNO DOVRÀ DIRCI quali dovranno essere le nostre leggi», ha detto Turabi. Mentre il ministro degli Interni della Difesa, mullah Yaqub, già a capo della Commissione militare, in un audio ha ordinato ai militanti presenti sul terreno di rispettare l’amnistia «concessa» subito dopo la presa del potere. Troppi gli abusi, oltre che gli omicidi mirati, dettati da rivincite personali.
Un rapporto di due giorni fa di Human Rights Watch (Afghanistan: Taliban Abuses Cause Widespread Fear) raccoglie invece le testimonianze anonime di alcune donne di Herat. Raccontano come la loro vita sia cambiata nel corso di poche ore. Attiviste, docenti universitarie, imprenditrici abituate a esporsi pubblicamente. Oggi in casa. Intimidite, a volte ricercate, costrette a fare i conti anche con il nuovo atteggiamento, aggressivo, dei famigliari maschi. I Talebani al potere cambiano anche gli equilibri domestici.