Ieri l’Afghanistan ha celebrato i cento anni dell’indipendenza dagli inglesi, tra violenza e incertezza politica. Almeno dieci esplosioni hanno colpito Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar e città che ospita le salme della regina Soraya e di Amanullah Khan, il re riformatore che nell’aprile 1919, pochi mesi dopo essere salito al trono, ha invocato l’indipendenza provocando la terza guerra anglo-afghana, conclusasi poi con la ritrovata sovranità afghana. Circa ottanta i feriti, mentre a pochi chilometri di distanza, a Metherlam, capoluogo della provincia di Laghman, alcuni razzi sono piovuti sul centro della cittadina dove si celebrava l’anniversario.

A Kabul invece il presidente Ashraf Ghani ha dovuto rivedere i suoi piani: molte le iniziative annullate in segno di rispetto verso le 63 vittime della strage di sabato sera, quando gli adepti del Califfato hanno colpito una delle tante Wedding Hall in cui si celebrava un matrimonio. Il tributo alle 63 vittime è servito a Ghani anche per dire che Kabul darà battaglia alla cosiddetta «provincia del Khorasan» fino alla sua estirpazione. Compito difficile: la strage di sabato segna un punto per gli adepti di Al-Baghdadi, in grado, come si è visto, di colpire in modo eclatante anche nella blindatissima capitale, anche se a livello nazionale registrano una presenza significativa solo in alcune aree remote delle provincie orientali di Nangarhar e Kunar. Sabato, la mattanza di sciiti – una scelta etnico-religiosa che aveva subito fatto pensare all’Isis, ancor prima che il gruppo rivendicasse e i talebani prendessero le distanze – è avvenuta durante la cerimonia festosa di circa 1.200 invitati. Solo i feriti sono quasi duecento.

La strategia dell’Isis è fin troppo evidente: far deragliare il negoziato, alimentare il terrore nella comunità «apostata» degli sciiti, colpire con clamore per mostrare che il Califfato è il posto giusto per gli insoddisfatti dagli accordi negoziati con gli Usa. Ma è vero anche il contrario: azioni come questa possono compattare il fronte disomogeneo della guerriglia e far trovare punti comuni perfino con il governo di Kabul. Non è un caso che l’inviato di Trump per la riconciliazione in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, subito dopo l’attentato abbia invitato ad accelerare il processo di pace, «inclusi i negoziati intra-afghani, così che gli afghani siano in una posizione più forte per sconfiggere» lo Stato islamico. Per ora governo e talebani procedono ognuno per contro proprio.

Il presidente Ghani ha celebrato l’anniversario dell’indipendenza al ministero della Difesa, usando toni muscolari e cercando di accreditarsi, ancora una volta, come il legittimo erede del «riformismo liberale» del re Amanullah Khan, costretto all’esilio nel 1929 per aver premuto troppo e troppo in fretta sul pedale della modernizzazione. Per i suoi oppositori, Ghani usa questo importante anniversario per guadagnare consensi in vista delle presidenziali che si terranno – forse – il 28 settembre.

Anche il leader degli studenti coranici, Haibatullah Akhundzada, non ha perso l’occasione per un po’ di propaganda. In un comunicato ufficiale ha scritto che a dispetto delle carceri segrete e delle torture di Guantanamo e Bagram, nonostante due decenni di guerra, gli occupanti «sono pronti al ritiro: manca poco prima che la nazione afghana possa alzare nuovamente la bandiera dell’onore e dell’indipendenza». Per quanto diversi, quando rivendicano indipendenza e sovranità, Akhundzada e Ghani appaiono ugualmente poco credibili: sia i talebani sia il governo di Kabul si reggono su gambe finanziarie straniere.