Piccole case editrici possono riserbare grandi sorprese, come nel caso di questo abridged Taine, L’età di Shakespeare (Oaks, pp. 304, € 20,00), che è una ristampa – ahimè tipograficamente infelice! – della prima edizione italiana di molti capitoli della gloriosa e tanto discussa Histoire de la littérature anglaise che Hippolyte Taine diede alle stampe nel 1864. Si tratta dell’ottima traduzione del 1946 ( Bompiani, collana «Il Portico») del bravo Mario Bonfantini (1904-’78), per la curatela di quell’anglista eccezionale che fu Alberto Castelli (1907-’71). Purtroppo non vi è contenuta la premessa metodologica del Taine che a suo tempo aveva suscitato tante polemiche, e neanche il capitolo su Shakespeare che avremmo letto avidamente: «…sono pagine vaste, quasi come il silenzio; sono, insomma, di scala shakespeariana», scrisse Henry James.

La necessaria premessa di Francesco Rognoni («Pesanti bruchi e splendidi insetti») ci informa minutamente sul vespaio di critiche e di ambigue lodi che l’Histoire de la littérature anglaise sollevò nell’ambiente parigino. Flaubert scriveva all’autore: «Che libro avete fatto! Che spirito, che talento, che potenza di visione! Mi diverto enormemente durante la lettura, mi sembra di passeggiare per una foresta e annusare a pieni polmoni un’aria pura, fragrante, rinvigorente». E Sainte-Beuve: «un grande libro che non lascerà le cose come erano prima». Più esplicito l’americano, già citato: «addentrandosi nella lettura, si smette di ricondurre il Taine alle sue rigide premesse, contentandosi di godere del magnifico movimento della sua fantasia, grati quando illumina il suo soggetto con esattezza, e consci della sua radiosità come colore, calore e forza…». I Goncourt sfogarono con gli amici il loro malumore contro l’odioso Taine, odioso e basta. Nel 1938 Croce sentenziò la condanna definitiva per quel metodo critico che non confermava verità già note, non ne promuoveva di nuove, ma metteva in giro «non pochi paradossi e paralogismi». Era ancora da venire l’altro memorabile capolavoro di Taine, i quattro volumi su Les Origines de la France Contemporaine: L’Ancien Regime (1875), La Révolution I, II, III ( 1883-’93). Tra le numerose cose minori va ricordato quel romanzo autobiografico lasciato a metà, Étienne Mayran, pubblicato postumo nel 1910, «di bel piglio stendhaliano» secondo Rognoni, prova d’aver raggiunto finalmente «le prime visioni d’insieme», le vette necessarie ai grandi panorami storici che stava componendo.

Alberto Castelli fu anglista attivissimo e prete «illuminato», studioso che mise in evidenza il contributo cattolico alla letteratura inglese, di solito messo all’angolo, nel saggio La religione nei drammi di Shakespeare (1963), nelle commosse pagine sul Naufragio del Deutschland di G. M. Hopkins (allora una novità) in Scrittori inglesi contemporanei (’39), nelle Lettere di Tommaso Moro (postumo, 2008). Nel 1946 Castelli fu il sacerdote che celebrò il matrimonio del giovane Manganelli. Lo introdusse al «Ragguaglio Librario», dove Manganelli svolse il suo apprendistato di recensore dal ’46 al ’49, e incidentalmente giudicò il Taine «più coloristico e letterario che storico». Castelli aveva lasciato l’insegnamento di Letteratura inglese in Cattolica quando fu nominato vescovo nel ’53, ma non cessò la sua attività di studioso.

Nella lunga introduzione all’Età di Shakespeare (e nelle note apprezzabili dagli specialisti) dovette bilanciarsi tra le accuse di ingenuità positivista, di inquietante determinismo lanciate da varie parti e il proprio entusiasmo per il «vivo e attraente» contatto che le pagine della Histoire emanavano a dispetto delle tanto vituperate premesse scientifiche. Che sarebbero: razza, luogo, tempo – nell’edizione inglese del 1886 race, surroundings, epochs (razza, ambiente, epoca) –, regole sottaciute ma permanenti negli studi antropologici e nei cultural studies. Taine, coetaneo di Jean-Henry Fabre, è affine anche a Michelet e Bachelard, romantici devoti adoratori della natura, cercatori dell’origine, dell’informe sensibile. La metafora naturalista viene a Taine spontanea, non come analogia ma come conferma di identicità (Rognoni). Ha scritto: «Avviene di un popolo ciò che avviene di un albero: la stessa linfa sotto la stessa temperatura e sullo stesso suolo produce, nei gradi diversi della sua successiva elaborazione delle diverse formazioni, gemme, fiori, frutti, semenze, in tal modo che la seguente ha sempre per condizione la precedente, e nasce dalla sua morte».

Come lavora Shakespeare i suoi memorabili personaggi? Come ne coglie i moti interiori e l’atto pronto e decisivo? «…con un solo sguardo, in un baleno: da presentarci un animale intero, forme e colori, coi giochi della luce sul suo pelame, il misterioso trasalir dei muscoli, il lampo degli occhi; e insieme la sua presente passione, l’intima agitazione, il momentaneo appello dei sensi; e sotto queste manifestazioni dell’attimo che fugge, i suoi istinti, le loro inclinazioni, e le remote cause di tutto». Oltre che evocare quadri viventi, come è stato detto, Taine è abile nello scavo in profondità dell’individuo, spesso un abbozzo che conserva appena un tratto umano. Ben Jonson «un vero Bèhémot letterario simile a quegli elefanti da guerra che portavano sulla schiena torricelle uomini armature e macchine»; Marlowe un pagano, un ribelle per dottrina e costumi incontestato rappresentante di «quello scatenarsi universale delle forze della natura ad opera del Rinascimento che lascia senza freno gli istinti come le idee»; Milton, che visse tra due epoche drammaticamente diverse, partecipa di quella duplice natura «come un corso d’acqua che scorra tra due terre si tinge di entrambe le sfumature». Il loro concetto di dramma non è progressivo, due o tre azioni si svolgono contemporaneamente, procedendo a salti e a soste, con una storia non semplice, ma ramificata, ricca di particolari. Addio alla simmetria e alla convenienza del teatro rinascimentale che imperversava sul continente. C’è da chiedersi «con quale energia, con qual disprezzo d’ogni riguardo, con qual violenza di verità essi osano così lavorare la medaglia della figura umana…».

A proporre Taine come nostro contemporaneo è Marshall Brown in apertura del suo Turning Points Essays in the History of Cultural Expressions (Stanford UP, 1997) in un interessante saggio, «Why Style Matters The Lessons of Taine’s History of English Literature», più di cinquanta pagine che consigliamo a chi volesse approfondire il match tra il vecchio Taine e il giovane Greenblatt. La tanto vituperata triade di razza, luogo ( o ambiente), tempo (o momento) torna a sfidare in più fluida ed estesa significazione i Nuovi Storici. Il vitalismo linguistico di Taine alza superbamente la testa. Lo stile, lascia intendere Taine, rivela l’impegno individuale rispetto alle norme vigenti, indica il processo di auto-trasformazione se c’è, reale o potenziale. È la perpetua inquietudine dialettica che rende viva e produttiva l’opera, e rende possibile ricostruire l’esperienza del tempo. Con Alberto Castelli e Marshall Brown salutiamo il ritorno dell’amabile, irriverente, profetico Hippolyte Taine.