Quando si entrava in piazza Tahrir, a Baghdad, era come entrare in un altro paese, un clima senza senso per la realtà irachena. E invece no, quelle erano le persone vere, le persone quando sono libere: era la libertà senza controllo tribale, sociale, religioso. Non c’era finzione, eravamo noi stessi.

La rivolta è iniziata il primo ottobre 2019 da richieste di classe, concretamente riflesse nelle persone che vi hanno preso parte: per lo più disoccupati, il 60-70%, e poi studenti, lavoratori pubblici, intellettuali, sindacati. Le richieste erano focalizzate su una vita dignitosa, lavoro, servizi. elettricità, acqua corrente, la fine delle vessazioni delle milizie che controllano i quartieri e usano la paura per dividere la società.

Erano le richieste di iracheni stanchi degli interventi coloniali esterni, di Turchia, Iran, Stati uniti, Arabia saudita che influenzano ogni aspetto della nostra vita. Si è iniziato a parlare di patria, vita, pace, ma anche di case e lavoro, educazione e sanità.

Niente di tutto ciò esiste in Iraq, mentre il budget dello Stato è di miliardi di dollari: perché viviamo così male, se ci sono tanti soldi? Perché ci sono miliardari nel paese e noi non abbiamo nulla? C’è stata un’accumulazione di ricchezza che ha portato a un’altra accumulazione, la rabbia, che è esplosa nella rivoluzione di ottobre. Impressionante e davvero progressista.

Non solo uomini, ma tantissime donne sono scese in piazza, tra le critiche dei religiosi e dei politici: tutta la propaganda settaria che per anni ha lavorato sulle persone è stata distrutta da milioni di persone, che hanno portato con sé un potenziale di crescita e cambiamento.

È seguita una dura repressione: almeno 900 morti, 25mila feriti, attivisti sequestrati e uccisi, miliziani infiltrati nei presidi. E poi il Covid: lo Stato ne ha approfittato per terrorizzare le persone. Sappiamo che è pericoloso, ma è anche vero che lo Stato ha girato un film dell’orrore affermando che saremmo morti tutti per colpa delle proteste.

Le piazze si sono svuotate e molti oggi guardano alle elezioni come opportunità di cambiamento, ma niente cambia con un voto. Ci aspettiamo una nuova esplosione di proteste perché lo Stato non ha offerto nulla: il dinaro si svaluta, l’inflazione sale, non c’è lavoro e non vengono pagati gli stipendi dei dipendenti pubblici per i debiti interni dovuti alla corruzione e al costo delle milizie.

Il movimento è stato veramente progressista. Giovani e donne hanno avanzato richieste mai sentite prima in Iraq, richieste radicali, laiche, che mettono in discussione le tradizioni tribali e religiose del paese. È incredibile vedere cosa possono dire le persone quando hanno spazio per farlo.

Abbiamo visto le donne chiedere uguaglianza di genere, sicurezza sociale ed economica oltre che fisica, la fine del sistema patriarcale. I movimenti femministi a Baghdad hanno avuto spazio per esprimersi, hanno partecipato alla scrittura del manifesto. Qui neanche i partiti di sinistra sono stati mai capaci di urlare questo tipo di slogan.

Vedere le donne guidare le proteste potevamo sognarcelo a Baghdad, ma per il sud conservatore era qualcosa di impossibile anche da sognare. Un film romantico: giovani che protestavano, chiedevano e si amavano.

Abbiamo visto i genitori sostenere i figli in piazza: le vecchie generazioni che avevano abbandonato i sogni di cambiamento hanno visto i figli costruire qualcosa e ne sono stati orgogliosi, gli hanno dato spazio, gli hanno permesso di dormire tutti insieme nei presidi. Le ragazze, vestite come volevano, uscivano di casa a qualsiasi ora.

E non è facile per una società in cui la donna spesso passa dalla casa del padre a quella del marito. Stiamo assistendo a un cambiamento a partire dal più piccolo nucleo sociale, la famiglia.

La testa di tanti è cambiata, la rivolta di ottobre ha avuto un impatto individuale e collettivo enorme, le idee progressiste sono diventate più facili da assorbire anche tra gli adulti. Da una prospettiva sociale, la rivolta ha lasciato un’idea potente di cambiamento.

Un ruolo l’ha avuto anche la classe lavoratrice, non solo chi ha un lavoro, ma anche disoccupati e studenti, la cui prospettiva spesso è solo entrare nell’esercito. In Iraq abbiamo lavoratori pubblici e lavoratori precari, eredità dell’idea di un capitalismo di Stato. Buona parte dei lavoratori sono dipendenti pubblici, per i quali è molto difficile scioperare: rischiano di perdere il lavoro, a volte la vita. Non esistono alternative per cui valga la pena protestare: se perdi il lavoro, la tua vita è terribile, lo diventa in un secondo.

Poi ci sono i precari del settore privato: non hanno alcun diritto e sanno di non poter alzare la testa, fuori dalla porta ci sono decine di migliaia di persone che aspettano di prenderne il posto.

E infine i lavoratori in nero, chi lavora a giornata: se ne saltano una non portano il pane a tavola, letteralmente. Per loro la protesta non è un’opzione. Qualcuno ha partecipato ma tanti ci hanno criticato, gli abbiamo impedito di lavorare. Da una parte sapevano che lottavamo anche per loro, dall’altra non riuscivano a lavorare. Hanno toccato con mano il senso del capitalismo.

Ci sono comunque stati scioperi nel settore petrolifero e al porto di Bassora. È stato importante: per legge in Iraq chi ferma la produzione petrolifera è considerato un terrorista.

Quello di cui abbiamo bisogno è che i movimenti di sinistra ci ascoltino invece di analizzarci sulla base delle loro teorie. Siamo frustrati da chi guarda a cosa accade qui da una prospettiva ideologica. Molti compagni anti-capitalisti e anti-imperialisti difendono l’Iran perché è contro gli Stati uniti. Ma Iran e Usa ci uccidono entrambi, derubano, colonizzano. Come fanno Turchia e Arabia saudita.

Noi, che ci definiamo compagni e marxisti, non vogliamo interferenze esterne e chiediamo di interrompere il sostegno al nostro governo criminale: usa il denaro che riceve dai paesi occidentali per mantenere il proprio potere. Noi iracheni stavamo per far cadere questo sistema, sono stati i vostri soldi a tenerlo in piedi. (contributo raccolto da Chiara Cruciati)

*Workers against Sectarianism (Was) è un collettivo di attivisti politici iracheni, uomini e donne tra i 25 e i 30 anni, che hanno preso parte alle proteste che nell’ultimo decennio ciclicamente hanno attraversato l’Iraq. Was è nato nel gennaio 2019, prima dello scoppio del movimento popolare dell’ottobre successivo, con un duplice obiettivo: la fine dell’isolamento narrativo del paese (con l’idea di raccontare l’Iraq dall’Iraq secondo categorie di classe e di sinistra); e la costruzione di una rete di solidarietà formata da attivisti, giornalisti, gruppi di sinistra, movimenti, intellettuali, ricercatori. Da due anni Was fa informazione attraverso il sito web e i social media, raccoglie interviste, pubblica notizie di prima mano sulle proteste, archivia le canzoni della rivolta e le varie forme d’arte nate nelle piazze.