«Nessuno qui pone speranze nella visita del papa. Si tratta di una visita ufficiale, per il regime un modo per fare propaganda». A sei anni da Tahrir e a quasi quattro dal golpe guidato dall’attuale presidente, a prevalere è la disillusione.

Ce lo dice al telefono T., uno dei leader della rivoluzione del 2011, che chiede di non essere citato: «Il papa sarà usato dal regime per dire al mondo: Visto? Qui va tutto bene, anche il pontefice ci fa visita. E fa gioco anche agli islamisti che potranno dire che la situazione dei copti non è poi così terribile».

Più che della visita in sé, aggiunge un altro attivista, per le strade del Cairo (tappezzate di poster giganti con mezzaluna e croce) si parla molto di più della militarizzazione della capitale: «Le misure di sicurezza sono enormi. Il governo teme attacchi dell’Isis e vuole mostrare di avere la situazione sotto controllo. Non è così: se in Sinai l’esercito ha inflitto gravi perdite allo Stato Islamico, ha anche generato altro estremismo perché opprime la popolazione, la danneggia, ne abusa».

La due giorni di Bergoglio in Egitto arriva a tre settimane dalla domenica delle palme insanguinata dagli attacchi contro due chiese copte, 47 morti. Poche ore dopo lo stato di emergenza era stato esteso dalla Penisola del Sinai a tutto il paese.

Chi lavora in organizzazioni, chi fa politica e chi semplicemente prova a salvaguardare l’ombra di diritti umani rimasta concorda: lo stato di emergenza dà al governo ulteriori strumenti di controllo .

«La repressione? Più o meno la situazione è la stessa di qualche mese fa – aggiunge T. – La differenza è che sempre più egiziani sono disillusi, vinti».

Protestano sempre di meno, schiacciati dalla macchina militare e da una povertà che ormai strangola un terzo della popolazione. Passa sotto silenzio anche l’ennesima legge: poche ore prima dell’arrivo di Francesco, al-Sisi tagliava un altro traguardo, la pubblicazione in gazzetta ufficiale di una riforma giudiziaria che capovolge la costituzione.

D’ora in poi sarà il presidente a nominare i vertici degli organi giudiziari (Corte costituzionale, Alta corte amministrativa, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato) scegliendoli tra una rosa di candidati, prerogativa prima in capo al sistema giudiziario, necessaria a garantirne indipendenza e imparzialità.

Contrari alla riforma, i sindacati della magistratura hanno indetto per il 5 maggio un’assemblea generale per programmare proteste e ricorsi contro una riforma che intacca alla base le poche istituzioni che ancora erano in grado di tutelare in parte la costituzione (annullando, tra l’altro, condanne a morte in processi di massa e la cessione delle isole Tiran e Sanafir ai sauditi).

Ma tutto è invisibile: i migliaia di desaparecidos, i quasi 1.500 – quelli accertati – detenuti preventivi (chi in prigione da due anni, chi da tre, senza vedere legali o giudici e senza conoscere le accuse), i centinaia di fratelli musulmani arrestati ogni mese.

Secondo fonti citate ieri dal quotidiano governativo al-Ahram, il papa ha parlato ad al-Sisi di Giulio Regeni, il cui brutale omicidio ha aperto gli occhi delle opinioni pubbliche europee.

Chiusi restano quelli dei governi che fanno affari con il regime senza soluzione di continuità e lo investono del compito di condurre la guerra all’islamismo radicale, la migliore giustificazione a stati di emergenza, arresti di massa, bavagli ai media.

Gli attacchi islamisti ai copti rientrano nella narrativa occidentale, ma per gli egiziani sono soprattutto lo specchio dell’incapacità del regime di difendere la popolazione.

I 15 milioni di copti d’Egitto hanno perso la speranza: dopo aver visto nell’al-Sisi del golpe l’uomo che avrebbe isolato l’Islam politico e non estremista, ora assistono alla proliferazione del radicalismo jihadista.

Attentati contro le chiese, omicidi, assalti nelle case hanno caratterizzato gli ultimi mesi nelle province orientali e costretto centinaia di cristiani a rifugiarsi a Ismailiya, Alessandria, Il Cairo.

«La gente si aspettava che al-Sisi fosse un affare migliore per la comunità copta – dice a New Arab il giornalista Wael Eskandar – Ma non è stato così. Il disincanto è palpabile». E non mancano le voci critiche verso il clero copto: «Molti copti pensano che papa Tawadros II parli a nome del regime, non a nome loro».