28 anni, vive a Los Angeles, Tahmina Rafaella, nata e cresciuta a Baku, la capitale dell’Azerbaijan, con Banu, il suo debutto alla regia, presentato nella sezione Biennale College, ambientato durante il secondo conflitto Nagorno-Karabakh, narra la lotta di una madre per l’affido del figlio. «Ho sempre amato il cinema». Mi racconta con tono gentile e sereno Rafaella. «C’era un solo cinema a Baku, ogni due settimane cambiavano la programmazione. Avevamo tanti film di Hollywood. Mia mamma era un’educatrice, durante il conflitto depositava fiori sui carrarmati e portava cibi agli attivisti. Mia nonna Zaira Allahverdiyeva era una poetessa e cantautrice famosa mi ha tramandato l’amore per la scrittura». Da ragazzina seguiva la moda Europea, Rafaella. Il suo negozio favorito era Benetton. «Mi piacevano I colori. Andavo a scuola con la T-shirt di Benetton e tutte le mie amiche indossavano la mia stessa maglietta. Indossavo pantaloncini, non c’era nessuna legge che li vietasse, ma non mi sentivo tranquilla, gli uomini ti seguivano. Non mi sentivo a mio agio. Avevo 13, 14 anni, mi ricordo passeggiare con una mia amica e ci ritrovammo seguite da un’orda di uomini. Mi arrabbiavo tantissimo per questo». A 17 anni Rafaella, decide di trasferirsi a Los Angeles per studiare recitazione.

Come mai Los Angeles?
In Azerbaijan, non c’era una tradizione di scuola di cinema. Dopo la scuola superiore volevo studiare recitazione ma in Azerbaijan non c’era una buona scuola. Volevo studiare con il metodo Meisner. A Los Angeles mentre studiavo recitazione mi sono iscritta all’università e mi sono laureata in film e scrittura creative. Mi sono mantenuta agli studi lavorando, non è stato facile.

Dove lavoravi?
Ho trovato lavoro in un ristorante molto chic di Los Angeles, frequentato da stelle del cinema. Per me erano client normali, non ci trovavo nulla di speciale. Il mio compito era accogliere all’ingresso i clienti e accompagnarli al tavolo. Sembra un lavoro semplice ma era faticoso, con turni molto lunghi. Lavoravo dalle sei alle dodici ore al giorno. 

Quanti anni avevi?
Vent’anni. Non avevo nessuna esperienza. Era un lavoro stancante perché il ristorante era sempre pieno. Ma ho imparato molte cose, soprattutto quanto presuntuoso può essere questo ambiente. Non sono mai stata una fan di Hollywood. 

Chi erano i tuoi client?
Leonardo DiCaprio, Beyonce, Madonna, Kardashian, Baldwin, Jennifer Lopez, Bradley Cooper.

Non c’era nessuno di questi che ti emozionasse?
Si per me il più interessante era David Fincher. Mi era piaciuto il remake di Girl With the Dragon Tattoo, ed anche Social Network, Zodiac. Mi piace il suo lavoro. Lo reputo un solido film-maker.
Non ero interessata alle celebrities, e pop stars.

La tua attenzione era rivolata più ai registi?

Quando mi dissero che stava arrivando Tim Burton, mi piazzai alla porta per accoglierlo.

Cosa pensi di Tim Burton?
Mi piacciano tutti i suoi film, ed è un umo interessante
, e il suo cinema emana un’originalità unica. Il ristorante aveva la lista di tutti i clienti, affianco ad ogni nome aveva una nota che lo descriveva. Affianco a Tim Burton c’era scritto “una bella persona”. Per ogni cliente c’era scritta la caratteristica, tipo “persona difficile”, oppure “s’innervosisce se il tavolo non è subito disponibile” oppure “molto scortese”. Insomma, un piccolo sguardo dentro il mondo di Hollywood.” 

Hai provato anche la strada dei provini?
Alternavo il lavoro al ristorante, con le classi di recitazione, l’università e i provini. È un po’ quello che fanno tanti giovani che arrivano a Los Angeles con il sogno di lavorare nel cinema. Un giorno mi sono resa conto che tutto questo non faceva per me. Ho iniziato a scrivere. E mi sono detta voglio raccontare storie di donne del mio paese, l’Azerbaijan. 

Quando hai realizzato il primo film?
Avevo 20 anni, avevo scritto una storia a 19. Il film venne realizzato in Azerbaijan. Rimasi sorpresa di questo, mi incoraggiò a iniziare a scrivere ancora. All’inizio non pensavo alla regia. Ero troppo giovane, non mi sentivo pronta ma decisi di trovare il coraggio di fare un passo in quella direzione. Realizzai una serie di corti. Uno dei miei corti venne selezionato a Palm Springs, e vinse dei premi. Conobbi la produttrice di Banu, che ha avuto il supporto della Biennale College. 

Hai avuto problemi come regista donna nel tuo paese ad essere accettata?
Le registe non hanno molte opportunità, è difficile per loro avere accesso ai finanziamenti. Dopo il corto ho iniziato ascrivere Banu. Credo che ho sempre volute essere la regista di Banu. Avevo una visione chiara del film. Mi sono detta posso scrivere il film e dirigerlo. Mi è venuta in mente questa donna che lotta per avere l’affido del figlio. Mi ricordo di aver covato a lungo questa storia. Ho incontrato donne nel mio paese che avevano affrontato questa lotta a causa di un divorzio. Il marito riusciva sempre ad ottenere l’affido dei figli se era un uomo potente e ricco, accusando la ex-moglie di essere pazza, o essere una donna di facili costumi. 

Che tipo di ricerche hai fatto?
Mi sono documentata in fase di scrittura. Ho registrato testimonianze, letto articoli, in particolare online. Queste storie venivano associato all’abuso e alla violenza domestica. È una sorta di tabu nel mio paese, solo da pochissimo la stampa ha cominciato a trattalo. Ma abbiamo donne nelle strade che protestano per questo. Nella mia famiglia non c’è mai stato questo problema. Non avevo consapevolezza di quanto il problema fosse capillare e diffuso. Ora è emerso, grazie anche alle lotte delle donne turche. Il femminicidio è all’ordine del giorno ma non se ne parla. Le donne del mio paese sono state incoraggiate dalle proteste e le lotte di quelle in altri paesi. Ho iniziato a far ricerche ora il problema sta emergendo con forza, da pochissimi anni. 

Nel tuo film non è chiaro all’inizio sembra che l’uomo abbia ragione, lentamente si scopre la verità. Come hai sviluppato la storia?
L’uomo sembra affascinate all’inizio, educato e cortese. Volevo insinuare il dubbio nel pubblico, fargli pensare forse lei è un po’ folle, ma questo è come la società si relaziona a queste dinamiche. Questi uomini sono così, hanno la tendenza ad essere gentili e carismatici, non sembrano mostri, ma nelle mura domestiche si trasformano. Quest’uomo ha una psicologia complessa, è il riflesso di come ragiona la società. Il mio protagonista è convinto che sia lei sbagliata, la donna deve cambiare, lui non ha nulla di sbagliato. 

C’è un altro uomo nel film, l’avvocato, sembra che tra i due possa nascere qualcosa di romantico ma invece…
Non volevo confondere la storia con un romanzo. L’avvocato è un uomo integro che crede in quello che fa, non sono tutti come il marito di Banu. Lei lo considera tale e nulla altro.

Altro punto del film è la solidarietà tra donne?
Lei chiede aiuto all’amica ma questa si rifiuta di aiutarla. Non tutte le donne sono pronte a essere coinvolte in questa lotta. Ma la donna che aiuta Banu è una madre povera che ha perso il figlio soldato. In entrambi i casi, la società è responsabile. Le donne hanno la funzione di proteggere il futuro dal circolo vizioso di conflitto e violenza. 

Qualcosa sul finale. Non è un happy ending ma c’è speranza.
Esattamente, il film apre una porta di speranza. La speranza che la guerra, il circolo di violenza può essere trasformato. Le donne hanno la forza di trasformare, con nuove generazioni di uomini. Non voglio essere cinica, voglio che il futuro sia diverso. Mi sono resa conto di voler realizzare subito un altro film, ma sempre storie di donne. 

Hai lavorato con una troupe di donne.
La nostra montatrice, la produttrice, e sul set ho avuto una maggioranza di donna, questo per allontanarmi dall’energia macho che spesso si respira sul set. Abbiamo girato in 26 giorni. 

Hai montato il film in Iran?
Strano per me vedere le donne completamente coperte. Sono legata all’Iran alla loro tradizione nobile di cinema, ma la situazione che c’è oggi e la repressione del governo è inaccettabile.