Sebbene quasi tutta l’opinione pubblica sia favorevole alla riduzione del carico fiscale per il lavoro dipendente, qualcosa nell’impianto dei provvedimenti del governo deve pur essere analizzato. Innanzitutto, l’impianto del sistema fiscale nazionale, che fa acqua da tutte le parti, in particolare per quel che riguarda Iva e Irpef, non viene mai considerato con la dovuta attenzione.

LA DISCUSSIONE sulla necessità di allargare la base imponibile, che attiene alla redistribuzione del carico fiscale (art. 53 della Costituzione), è rimossa fin dalle sue fondamenta. Questo appunto dovrebbe guidare la riflessione sulla politica fiscale nazionale. L’ultima Legge di Bilancio del Governo impegna 3 mld nel 2020, 5 miliardi per il 2021 e 5,5 miliardi per il 2022 per ridurre il carico fiscale al lavoro dipendente. Sempre secondo il Mef, ai redditi da 8.000 a 28.000 euro andrebbero 1.200 euro annui, che progressivamente scendono a 1.062 per i redditi tra 28.000 e 35.000, mentre per i redditi da 35.000 a 40.000 il beneficio annuale medio sarebbe pari a 380 euro. Sebbene l’operazione sia estremamente popolare, dobbiamo pur sottolineare alcuni problemi metodologici.

Il primo è legato all’efficacia della stessa e alla memoria corta della sinistra: ogni volta che le forze politiche del centro sinistra si riaffacciano al governo del paese, riemerge il mantra della riduzione del cuneo fiscale; con il governo Prodi furono spesi 7 miliardi per ridurre il cuneo e con effetti economici trascurabili.

Intendiamoci, il reddito da lavoro meriterebbe sempre una particolare attenzione, ma dobbiamo interrogarci se la riduzione del cuneo fiscale via Irpef sia la via migliore per redistribuire reddito. Se guardiamo con disincanto all’imposta Irpef, ciò che emerge è la necessità di riformare l’imposta perché non è più una imposta progressiva su tutti i redditi: a forza di sottrarvi vari cespiti per accontentare le varie clientele, è diventata un’imposta sui soli redditi da lavoro dipendente e assimilati. È difficile giustificare la forte progressività esistente su una base imponibile così ridotta.

QUINDI, la misura del governo esercita una distribuzione all’interno di una sola categoria di reddito (il lavoro), e non una distribuzione del reddito a valere su tutti i redditi. Ciò detto, significa che non interviene nessuna distribuzione del reddito tra i diversi percettori di reddito, piuttosto si agisce su un solo reddito, evitando accuratamente di ripristinare l’art. 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».

NEPPURE dal punto di vista della politica economica la misura sembra avere un qualche effetto. La stampa guarda sempre al dito e mai alla luna, ma è appena il caso di ricordare che il costo del lavoro nazionale non è comparabile in nessun modo con quello dei migliori paesi europei: 38.289 euro in Francia, 40.522 euro in Germania e 29.601 euro per l’Italia (2018). Ciò che manca al reddito da lavoro in Italia non è legato alla tassazione, piuttosto alla distribuzione del reddito nel mercato.

Può anche essere che la debolezza del lavoro pregiudichi una coerente rivendicazione salariale nel mercato, ma è pur sempre l’unico modo per recuperare un rapporto capitale-lavoro coerente con la dinamica della produttività. Se l’Italia registra un indice Gini pre-intervento pubblico molto alto, è nel mercato che occorre intervenire.

Ovviamente il fisco può e deve fare qualcosa, ma non dimentichiamoci che interviene sempre a margine dei redditi dichiarati.

SE IL FISCO deve contribuire alla distribuzione del reddito è necessario che tutta una serie di redditi usciti dall’imposta Irpef rientrino; altrimenti la distribuzione del reddito diventa fittizia, con l’effetto di comprimere interventi pubblici equivalenti. Non è un gioco a somma zero. L’impatto economico negativo del taglio della spesa è di gran lunga superiore all’impatto positivo dell’aumento salariare via fisco. Dobbiamo pur interrogarci sull’effetto distributivo ed economico legati a questo tipo di interventi: tra i 9 miliardi di Renzi per gli 80 euro e i 6 miliardi a regime per ridurre il prelievo fiscale sul lavoro, lo Stato si è impegnato per 15 miliardi. Sono veramente tanti euro se consideriamo le difficoltà dei conti pubblici. Se queste risorse fossero state impegnate in altro modo e si fosse lavorato per una riforma strutturata del prelievo fiscale come sarebbero andate le cose?