«Quello di Giorgetti non è uno strappo. Se qualcuno sul referendum la pensa in modo diverso non mi arrabbio e non mi offendo. La Lega non è una caserma, a differenza di altri movimenti». Se quella di Matteo Salvini non è una benedizione poco ci manca. Non significa che l’uscita “in dissenso” del numero due della Lega fosse concordata con il capo. Non lo era. Giancarlo Giorgetti, in compenso, era certamente consapevole di come l’avrebbe presa Salvini e ne aveva avuto prova nelle reazioni, anzi nella mancanza di reazioni, ai pronunciamenti precedenti come quello di Borghi, meno pesanti del suo ma non trascurabili.

La realtà è che l’ex sottosegretario alla presidenza, che nel Carroccio è quello con il maggior acume politico, ha cercato un modo per trarre fuori dai guai Salvini, con cui pure i rapporti recentemente non sono stati ottimi, per usare un eufemismo. Salvini, come sul fronte opposto Zingaretti, è prigioniero di una scelta subìta più che condivisa: il voto a favore del taglio dei parlamentari come prezzo per l’alleanza con i 5S. Quella scelta è ora una tagliola ma Salvini, che già deve vedersela con un elenco telefonico di guai, si rende conto di non poter ingranare la retromarcia senza tirarsi addosso accuse di ogni tipo.

Il problema riguarda però l’elettorato più che il gruppo dirigente. «La Lega e ancora di più Fdi rischiano di restare prigionieri della loro stessa demagogia», argomenta un dirigente forzista in primissima linea nella campagna per il No, Andrea Cangini: «Non hanno alcun interesse nella vittoria del Sì che rafforzerebbe i 5S e stabilizzerebbe il governo, ma sono prigionieri della loro retorica». Giorgetti ha cercato un modo per far arrivare un messaggio chiaro a quella base elettorale e Salvini con la sua difesa d’ufficio, «Voto Sì per coerenza», non fa nulla per evitare che il messaggio arrivi a destinazione.

In realtà anche all’interno dei singoli schieramenti l’esito del referendum peserà parecchio. Se per la Lega e per Fi la vittoria dei Sì sarebbe un esito tutto in negativo, Giorgia Meloni, che ha deciso di spendersi molto più dell’ex ministro degli Interni, raccoglierebbe i dividendi nella sua sfida per rimpiazzare il leghista come leader della destra.

Lo stesso discorso vale nella coalizione di governo. Per quanto Zingaretti si sforzi di trasformare la riforma in una bandiera del Pd, coadiuvato ieri anche da Enrico Letta che si è espresso a favore del Sì, la missione è impossibile. Non solo per il pollice verso nelle prime tre votazioni in Parlamento o perché la riforma elettorale è all’ancora nel porto delle nebbie. Soprattutto perché è evidente la disomogeneità tra il taglio dei seggi, ispirato dall’antiparlamentarismo dei 5S, e la cultura politica del Pd e della sua base. L’esito però è chiaro: la vittoria del Sì moltiplicherà il peso dei 5S negli equilibri di maggioranza e di governo.