Con il ritiro dei soldati americani dall’Afghanistan, modulato sulle presidenziali del prossimo novembre, Trump pensava di incassare un secondo mandato. Ma proprio l’Afghanistan potrebbe fargli perdere un bel pacchetto di voti.

Per la Casa Bianca diventa infatti sempre più imbarazzante la storia pubblicata venerdì scorso dal New York Times, arricchitasi di nuovi particolari nei giorni scorsi: Trump avrebbe saputo già a febbraio del piano di ricompense offerte dai servizi segreti russi ai Talebani per far fuori i soldati statunitensi in Afghanistan, ma non sarebbe intervenuto. Un piano rivelato grazie alle testimonianze di alcuni militanti detenuti dalle forze speciali Usa e poi confermato da trasferimenti di denaro dai conti dei servizi militari russi a conti riconducibili ai Talebani.

Trump prima ha sostenuto di non essere stato informato, poi ha negato la veridicità della notizia, enfatizzando le divergenze sull’affidabilità delle informazioni raccolte dalle diverse agenzie di sicurezza degli Stati Uniti: nessuna taglia, «un’altra bufala russa». Il New York Times però insiste. E così altri quotidiani. Lo stesso ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton avrebbe avvertito Trump nel marzo 2019, mentre l’inviato speciale per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, avrebbe chiesto di affrontare la questione con Mosca, scontrandosi con le resistenze della Casa Bianca. Trump, che torna a fare del «riporterò i nostri ragazzi a casa» una bandiera elettorale, si trova ora accusato di aver preferito mantenere buoni rapporti con la Russia anziché chiedere conto a Putin delle notizie raccolte dalla propria intelligence: prima Putin, poi la vita dei soldati Usa.

Il New York Times si dice pressoché sicuro dello scoop, che alimenta la bagarre politica pre-elettorale, con Joe Biden, lo sfidante democratico alla Casa Bianca, che accusa Trump di gravi inadempienze. Ma la notizia va letta cum grano salis, dentro il contesto afghano. Il denaro trasferito ai Talebani non serviva necessariamente come ricompensa per gli scalpi dei soldati a stelle e strisce, come raccontato da alcuni militanti. Più plausibilmente era parte delle somme versate da Mosca, come tutti gli altri attori regionali, per condizionare il gruppo guidato da mullah Haibatullah Akhundzada.

La Russia nega il presunto piano di ricompense, ma non nega il rapporto con i Talebani, consolidato negli ultimi anni. Nel 2015 è stato lo stesso inviato speciale di Putin per l’Afghanistan, la vecchia volpe Zamir Kabulov, a riconoscere apertamente gli interessi condivisi con i Talebani, a partire dalla lotta contro la «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico. E a vedere negli eredi di mullah Omar dei partner, anziché dei nemici. Washington non ha fatto che seguire le orme di Mosca, da questo punto di vista, riconoscendo una patente di legittimità politica ai Talebani con l’accordo firmato a Doha lo scorso febbraio.

Prevede il ritiro delle truppe straniere, il ritorno al potere – anche se condiviso – dei Talebani e la partnership con gli studenti coranici proprio contro la «Provincia del Khorasan». Mosca sa che il ritiro degli americani apre un vuoto che può essere opportunisticamente riempito. Coltiva contatti e interessi. Ma non ambisce di certo a farsi carico delle responsabilità – anche finanziarie – previste da una presenza ingombrante e diretta nel Paese.

Più che come una difesa d’ufficio di Trump, va letto così anche il commento del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo: «il fatto che i russi siano impegnati in Afghanistan in modi avversi agli Usa non è niente di nuovo».