Durante la prima notte in uno dei quartieri popolari più colpiti dall’alluvione, oggi come tre anni fa, un’auto dei vigili urbani viene presa a sassate dagli abitanti esasperati, soli di fronte all’ennesimo disastro, costretti a ricominciare da capo. Un episodio che fa pensare a una delle tante città della periferia di questo mondo, una città in declino, in crisi, dove le crescenti contraddizioni sono affrontate con una guerra tra poveri che non può portare da nessuna parte. I vigili urbani come simbolo più prossimo dei poteri locali, delle istituzioni. La rabbia si scarica sugli obiettivi più immediati, rischiando di confondere il ruolo degli addetti del comune con quello dei loro dirigenti, siano politici o tecnici. E solo raramente si riflette sull’impalcatura politico-economica che sta a monte di queste tragedie che fanno di Genova un modello negativo.

Senza entrare nel merito dei cambiamenti dei regimi piovosi che sono dati in ragione dei cambiamenti climatici, frutto a loro volta di uno sviluppo insensato sia sul piano industriale che dei consumi, e astraendo dai particolari assetti idrogeologici della Liguria, su cui si è cementificato in maniera sconsiderata, diventano urgenti alcune considerazioni che potrebbero condurre a conseguenze piuttosto immediate, se solo si decidesse di invertire la rotta.

Il primo aspetto è il regime di appalti a cui le amministrazioni locali si sono affidate per la realizzazione di lavori strutturali contro il perenne dissesto per cui erano stati stanziati fondi sufficienti. Quindi i soldi ci sono, ma i lavori non vengono svolti. Un contorto e frammentato meccanismo di gare divide i progetti in più tranches, ove la prima ditta locale vince il primo lotto, ma poi è indagata dalla Finanza, e dove il secondo lotto è vinto da un consorzio di società a cui quelle perdenti fanno ricorso, bloccando l’inizio dei lavori. Diversi Tribunali regionali coinvolti fino al Consiglio di Stato. A tre anni dalla scorsa tragedia l’opera di messa in sicurezza dei territori non è stata ancora realizzata, favorendo l’odierno disastro nei medesimi luoghi. Eppure la teoria imperante in questi anni è stata proprio quella di un privato efficiente a cui concedere impieghi con risorse pubbliche e attraverso meccanismi crescenti di esternalizzazioni. Ma se il movente è unicamente il risparmio dal lato pubblico e il profitto da quello privato il risultato sotto gli occhi di tutti è il fallimento delle opere necessarie. Altro che efficienza del privato.

Passando dalle opere straordinarie all’ordinaria manutenzione, i cittadini giustamente lamentano il costante abbandono e degrado dei rivi, intasati da detriti di varia natura. Qui nuovamente le responsabilità sono a cascata. Lo Stato riduce i finanziamenti agli enti locali, questi riducono le prestazioni a partire da quelle meno appariscenti. Si prova a non tagliare i servizi sociali, ma si finisce per colpire i servizi manutentivi. L’azienda di servizi del comune di Genova (Aster) subisce un costante e consistente ridimensionamento delle risorse per il proprio contratto di servizio, così riduce l’occupazione. Il Comune poi non rinuncia definitivamente al progetto di privatizzazione, nonostante la clamorosa protesta dello scorso anno condotta insieme agli autotrasportatori che paralizzarono la città per cinque giorni. Oggi, mentre i dipendenti si autoriducono gli stipendi, azzerando i premi per non mandare l’azienda in rosso, questa, per far fronte al disinvestimento pubblico e procacciarsi nuove entrate, dirotta risorse verso il mercato su mansioni che non le sono proprie, finendo per snaturare la propria missione. Nessuna ricapitalizzazione dell’azienda, inoltre, ha accompagnato questo processo e il parco mezzi risulta ormai obsoleto. La concretezza del caso genovese rappresenta un’importante spunto per cominciare a riflettere su quale dovrebbe essere una nuova impalcatura dell’economia.