Promossa dai rettori della Crui, la «primavera dell’università» ha rilanciato ieri da Milano a Palermo l’allarme sul più grande disinvestimento compiuto da un paese Ocse nell’istruzione superiore. Dopo i tagli Gelmini-Tremonti (-1,1 miliardi di euro), l’università italiana si è rimpicciolita cinque volte; gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66mila (-20%); i docenti sono scesi a meno di 52mila (-17%); il personale tecnico amministrativo a 59mila (-18%). La metà del calo delle immatricolazioni è al Sud. Il 30% degli immatricolati meridionali si iscrive al Centro Nord. In Sicilia ormai quasi un terzo emigra, a fronte di meno di un sesto nel 2003-04. Diecimila docenti e ricercatori sono spariti, come 5 mila dottori di ricerca. A Sud, come ha mostrato l’economista barese Gianfranco Viesti che ha coordinato la ricerca Università in declino (Donzelli), è il disastro: al solo ateneo di Palermo sono stati tagliati 60 milioni di euro nel 2015.

Emergenza a Cagliari dove ieri quattromila docenti e studenti hanno manifestato in piazza. In testa al corteo la rettrice Del Zompo e il sindaco Zedda. A Torino e Pisa si sono tenute assemblee dove sono intervenuti collettivi studenteschi; ricercatori precari che fanno uno sciopero alla rovescia per il riconoscimento della ricerca come lavoro; docenti che hanno protestato contro la valutazione della ricerca (VqR) che aggrava gli effetti deii tagli e mette in competizione atenei e dipartimenti.

In cima alle preoccupazioni dei rettori resta invece l’idea che l’Italia possa “competere” nella “società della conoscenza”. Dalle dichiarazioni di ieri non è emerso nemmeno un barlume di critica, o perlomeno di dubbio, sul fallimento del ciclo ventennale di “riforme” dell’istruzione terziaria italiana. Iniziato nel 1989, e approfondito con la riforma Berlinguer-Zecchino, quella del «3+2», e la riforma Gelmini, quella della “meritocrazia”, oggi tutti i nodi sono arrivati al pettine. L’università italiana non è solo sottofinanziata, ma ha mancato tutti gli obiettivi di produzione per “competere”. Si voleva raggiungere il 40% di laureati entro il 2020, l’Italia è rimasta all’ultimo posto nell’Europa a 28 con il 23,9%. Di analisi (auto)critica nemmeno, lontanamente, l’ombra.

“Siamo fortemente preoccupati per il futuro del paese perché nella sfida della globalizzazione l’Italia non può trascurare il futuro della conoscenza, della formazione e della ricerca” ha detto il rettore de La Sapienza Eugenio Gaudio. Il rettore di Roma Tre chiede “un investimento pubblico sul lungo periodo”, mentre i rettori delle università lombarde puntano su una trnità: “Capitale umano, risorse finanziarie e strutturali, regole”. Non una parola sullo Human Technopole che sarà costruito al posto dell’Expo a Milano e da solo assorbirà 1,5 miliardi nei prossimi 10 anni: 150 milioni all’anno. Risorse che, in queste condizioni, avrebbero potuto dare respiro agli atenei dove si risparmia anche su telefoni e corrente elettrica.

Il nesso tra valutazione e definanziamento, uso politico della «meritocrazia» e sperequazione territoriale e sociale tra università del Sud e del Nord, tra ricchi e poveri, non è stata colta dal documento della Crui. Nei suoi dieci punti c’è solo un vago accenno a «norme bizantine che impediscono all’università di essere competitiva». Non si dice che il «bizantinismo» è l’effetto della meritocrazia che delimita pochi poli di eccellenza, quelli presenti in alcuni territori collegati ai flussi economici più forti, abbandonando tutti gli altri atenei all’incerto destino di università di serie B. I rettori non sono interessati a decostruire il dispositivo di governo che sta distruggendo i loro atenei. Anzi, ne evocano il rafforzamento quando chiedono più stanziamenti strutturali per essere «più competitivi».

La burocrazia della Vqr che hanno accuratamente evitato di criticare è stata concepita proprio per rafforzare la «competitività» di alcune eccellenze a discapito di tutti gli altri. La «competitività» ha un costo: quello di archiviare l’idea di un sistema universitario diffuso sul territorio, aumentando l’esodo interno (ed estero) di studenti e ricercatori.

«I rettori sono stati sponsor del numero chiuso che riguarda il 60% dei corsi oggi – ricorda Alberto Campailla (Link) – Il calo degli studenti va cercato nelle politiche del governo e in quelle dei singoli atenei. La platea dei beneficiari del diritto allo studio è la metà della Spagna». «I rettori non hanno mai messo in campo una vera opposizione alle politiche statali di smantellamento dell’università . Afferma Jacopo Dioniso (Udu) – Hanno sostenuto gravi provvedimenti come l’aumento delle tasse. Se hanno a cuore il futuro dell’università le abbassino e si ribellino alla valutazione punitiva imposta dall’Agenzia Anvur».

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