Quattro personaggi chiusi in un centro anziani sui generis, dove tutto è colorato, armonioso e risolto, ma imposto per legge. Siamo sulla scena di Lullaby – tragedia aerobica, nel 2059. Nel futuro immaginato da Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, alias Industria Indipendente, la catastrofe ambientale è stata scongiurata e trionfa un ecologismo di maniera, in un mondo di giovani e governato da giovani. Allo scoccare dei 70 anni, infatti, dopo aver vissuto un’esistenza libera anche da vincoli di genere, ognuno deve terminare i propri giorni in «reclusione», tra esercizi ginnici, sballi farmacologici e fantasiose congetture di evasione. Si snoda come un divertissement lievemente distopico, affidato alle presenze sceniche sicure e navigate di Marco Cavicchioli, Ermanno De Biagi, Francesca Mazza ed Emanuela Villagrossi, che danno vigore al testo forse un po’ lineare delle due autrici-registe con placida ironia. Una sorta di favola pop che inframezza la struttura dialogica alle didascalie proiettate sul fondale, a sostegno di una narrazione che resta aperta.

PROGRAMMATO in «Anni luce», sezione di Romaeuropa festival curata da Maura Teofili e dedicata alle giovani scritture, Lullaby fa da contraltare al lavoro di Dante Antonelli, Atto di adorazione, agito invece da un quartetto attorale acerbo, ma generoso e convincente. Partito dall’opera di Yukio Mishima, l’autore e regista schiera la sua piccola brigata sulle mosse del taekwondo, prima di lanciarla nell’effluvio di parole gonfie di emozioni e ribellioni fanciullesche. Un combattimento con se stessi e col mondo degli adulti, gravido degli spaesamenti identitari mutuati dal mentore giapponese che la sua via fuori dal dolore forse non l’ha mai trovata, lasciandoci in eredità il suo ultimo atto risolutivo.

TRA GAMBE lanciate e confessioni «autobiografiche» l’agire dei quattro (Claudio Larena, Giovanni Onorato, Arianna Pozzali, Pietro Turano) crea un unico corpo energetico, che annulla le pur evidenti differenze formative. Accompagnati dalla mai interrotta partitura musicale di Mario Russo, che dalle percussioni passa alla tromba e poi al violino, i quattro raccontano piccoli drammi quotidiani, mescolati al sesso consumato o fantasticato, mentre ripetono minacciose sequenze gestuali di kendo. Guidati nei movimenti coreografici da Salvo Lombardo, quei corpi si congiungono in abbracci e rotolamenti in un finale che se venisse asciugato, rafforzerebbe ancora l’intero spettacolo.