Di profezie nichiliste è piena la narrativa disegnata: pensi a un futuro distopico ed ecco pronti L’Eternauta di Oesterheld & López, V For Vendetta di Moore & Lloyd, Battuta di caccia di Bilal, e poi Kamandi di Jack Kirby, Undicovered Country di Snyder, Soule e Camuncoli… niente però arriva a sfiorare la potenza menagrama di La quarta guerra mondiale di Marco Taddei e Spugna (Feltrinelli Comics, 176 pagine a colori). Giusto il tempo di arrivare sugli scaffali e la guerra è arrivata davvero. D’altronde, visti i precedenti degli autori, le premesse c’erano tutte: Marco Taddei è lo sceneggiatore dell’epopea alcolica e punk di Anubi, inno all’autodistruzione più consapevole. Al suo fianco, in quest’occasione, ecco Spugna, autore classe 1989 con alle spalle un filotto di fantasy corruschi e maneschi tra cui brilla il recente Fingerless.
Incontriamo gli autori nella penombra di un pub milanese per parlare della genesi del volume. Un’intesa nata da una lunga frequentazione, come riconoscono i due: «Ci s’incrocia dai tempi della comune militanza in Grrrz Comic Art Books e tra fiere, trasferte, eventi e serate varie ci si conosce da un sacco di tempo. Quando è saltata fuori l’occasione giusta, collaborare ci è venuto naturale». Galeotta è stata la proposta di Feltrinelli Comics, pronta ad aprire le porte al duo “sulla fiducia”: «Quando abbiamo trovato la breccia nel fortino di Feltrinelli ci siamo messi a pensare a quale storia presentargli», spiega Taddei. «Io ho tirato fuori tre idee: una storia “hard boiled” di gangster mutaforma, poi quella di uno skater psicotico in una Milano del futuro in eterna costruzione, e per finire quella di un conflitto perenne tra “Sturmtruppen” alla Cronenberg». Proprio questa ha attirato l’attenzione di Spugna. «Il mio cervello si è subito incendiato, anche per lo sfrenato amore che porto a Otto Dix fin dai tempi del liceo artistico. Mi chiedevo spesso come sarebbe stato contaminarlo con Giger e un segno più stilizzato, e lo spunto del buon Marco ha risvegliato tutte queste belle pulsioni visive».

IL TUTTO, senza immaginare che poco dopo il fatidico “si stampi”, l’ipotesi di un conflitto sarebbe diventata tremendamente attuale: «Siamo voluti saltar subito alla Quarta guerra mondiale per ribadire la distanza e l’assurdità di questo futuro esagerato, una follia quasi tranquillizzante rispetto al banale orrore delle guerre reali. Purtroppo a distanza di soli due anni dalla scrittura di questa storia il reale ha messo il turbo e si rivela sempre più grottesco del grottesco».
Nello sforzo consapevole di esorcizzare l’orrore, il volume è un continuo spararle grosse, tra gustosi furti narrativi che vanno dalle Sturmtruppen di Bonvi, a Il Dottor Stranamore di Kubrick fino all’opera letteraria di Céline. Ma come spiega Taddei, «Per mostrare l’inutilità della guerra non c’è tono migliore che questo. Potrei aggiungere che a scrivere questa storia mi sono divertito come un pazzo… e a rileggerla rido ancora. Anzi, più che ridere ghigno».

E PARAFRASANDO la retorica bellica, se Atene ride, Sparta non piange: «Mi ha sorpreso quanto siamo riusciti a creare qualcosa di totalmente nuovo rispetto ai rispettivi lavori precedenti», chiosa Spugna. «Personalmente ho dovuto confrontarmi con una massiccia presenza di dialoghi rispetto ai miei soliti standard… Per non parlare dell’abbondanza di forme femminili».
Un ping pong creativo che i due eroici fantaccini di stanza tra Vasto e Milano hanno gestito in gran parte a distanza in ossequi alle ferree normative anti-covid dell’ultimo biennio. «Ho scritto sinossi, soggetto e sceneggiatura», precisa l’autore abruzzese. «Poi Spugna ha avviato le macchine. Tra di noi non c’è stata nessuna impuntatura, anzi, nonostante la distanza abbiamo avuto modo di rilanciarci continuamente idee a vicenda». Un punto su cui insiste l’altra metà del duo: «Ci siamo trovati molto bene, perché siamo confluiti in modo molto naturale l’uno nel metodo dell’altro. Ad esempio, se parliamo della costruzione della tavola, i dialoghi e le descrizioni di Marco mi davano le indicazioni per il ritmo, poi io rifinito e calibravo la divisione in vignette, anche in base alla mia esperienza più “visiva” e d’azione». Un metodo che sembra aver funzionato abbastanza bene da far pensare a un prosieguo della storia anche oltre il finale, che come nella stretta attualità resta aperto. È il bello – e anche il brutto – del fumetto. Tutto il resto, per dirla con il buon vecchio Louis-Ferdinand, sono parole.