Se si vuole conoscere la fatica del fare storia Vite in fuga – Gli ebrei di Fort Ontario tra il silenzio degli Alleati e le persecuzioni nazifasciste di Antonio Spinelli (Cierre edizioni – Istrevi, pp. 396 euro 24) è un buon inizio. Per raccontare e sostanziare una vicenda che ha dell’incredibile, e in Italia decisamente sconosciuta, Antonio Spinelli ha scavato sì in rete e negli archivi ma è partito dai vissuti personali: uno studio di storia locale con una mostra e la ricerca di un numero di telefono. Poi si aggiungono un sito (www.dalrifugioallinganno.it) e il lavoro di alcuni anni. Il risultato è un libro dove non ci sono buoni né cattivi ma le storie di 982 persone di diciotto nazionalità diverse che il caso, l’intuizione o il temperamento personale ha condotto nel 1943 nei territori italiani liberati dagli anglo americani. Gente già in fuga da anni il cui punto di contatto è la provincia di Vicenza (coeditori del volume sono non a caso la Cierre edizioni e l’Istituto storico della Resistenza e della provincia di Vicenza).

Rifugiati nei campi

Si tratta di ebrei stranieri internati a Vicenza e nelle province vicine in cui «tutti gli attori citati entrarono sul palcoscenico della salvezza»: dai cittadini ai contadini che nascosero gli ebrei nelle fattorie o nei campi, dai partigiani ai preti dei piccoli paesi di montagna fino ai monaci di alcuni monasteri. Di queste storie di internamento alcune condurranno fino alle coste del lago Ontario al confine tra Stati Uniti e Canada: «negli anni cruciali della Shoah, gli Alleati non diedero la sensazione di voler affrontare il problema degli ebrei in pericolo, né quello dei profughi. L’istituzione dei campi per desplaced persons in Nord Africa e di quello più mediaticamente sfruttato negli Stati Uniti, di Fort Ontario, non fu altro che un modo per alleggerire parzialmente la difficile situazione dei rifugiati, ebrei e non, già liberi nelle zone controllate dagli Alleati».

Dare conto di tutti gli intrecci dei luoghi e delle lingue raccolti da Spinelli è impossibile. I protagonisti si spostano in modo sorprendente attraverso le frontiere dell’Europa in guerra: dalla Jugoslavia, Francia, Austria, Belgio, Polonia. Gente già in fuga da anni. Tra loro la famiglia Weiss, gli Hendel, i Fischer e i Rothstein – internati a Vicenza – «decisero di prendere parte all’unico progetto americano che si faceva direttamente carico dei profughi presenti in Italia e che prevedeva la creazione di un campo a Fort Ontario (Oswego, New York)».

Fu così che il 5 agosto del 1944 i 982 rifugiati giunsero a New York dopo aver subito una selezione e aver compilato infiniti moduli in cui dichiaravano che accettavano l’ospitalità americana avendo compreso che non si trattava di una richiesta di immigrazione. Carte che crearono molte incomprensioni e aspettative destinate ad essere frustrate per due anni. Di particolare interesse è la parte del volume dedicata all’analisi delle politiche Usa legate all’antisemitismo e all’immigrazione, alla questione delle quote e alla descrizione di tutte le agenzie governative e private che intervengono nella gestione dell’organizzazione prima della selezione dei partenti poi del viaggio sulla Henry Gibbins e successivamente nella gestione del campo profughi e nella risoluzione del loro caso.

«Una mattina di agosto – scrive Edith Wiess, una giovane donna austriaca diplomatasi negli Usa mentre stava a Fort Ontario – i nostri occhi pieni di speranza scoprirono la Statua della Libertà, che si ergeva come simbolo per i poveri ed i perseguitati (…) Così, un giorno passa come un altro e ogni giorno speriamo di essere più vicini all’America, a questa terra di libertà e di giustizia. Quattordici mesi fa eravamo europei. Oggi il nostro solo desiderio è essere uno di voi. Il mio è di essere una normale ragazza americana, felice, giovane, e orgogliosa di questo paese».

Peripezie infinite

Eppure, all’arrivo, la prima esclamazione di alcuni fu: « Un recinto? Un altro recinto?». Walter Greenberg, un ragazzino di 11 anni, commentò anni dopo: «Mi sentivo ingannato. Sentivo che avrei dovuto essere libero. Voglio dire, mi sentivo meravigliosamente. Avevo dottori. Avevo le cure necessarie. Avevo cibo. Andavo a scuola. Gli abitanti di Oswego erano molto gentili. Ma che felitcità c’è nell’avere tutte le comodità se una persona non è liberà». Alle parole del bambino fanno da contro campo le lettere degli ascoltatori di una trasmissione radio della Nbc dedicata agli internati di Fort Ontario: «Per cosa, nel nome del cielo, stiamo combattendo questa guerra se non per la libertà, la giustizia, l’onestà e il concetto di dignità degli individui? Nel nome di tutto ciò per cui l’America esiste, a queste persone deve essere permesso di rimanere e devono essere dati loro ogni opportunità e ogni incoraggiamento per diventare cittadini americani». Alla fine alcuni dei 982 – in particolare gli jugoslavi – vennero rimpatriati come da loro richiesta, altri raggiunsero parenti in Sud Africa o in sud America. Altri ancora dopo molte difficoltà legali riuscirono a diventare cittadini americani: per dargli la possibilità di ottenere la cittadinanza si batterono stampa e comitati, settori dell’amministrazione e dell’esercito. La soluzione fu trovata nel febbraio del 1946: vennero condotti in Canada e da lì fatti rientrare negli Usa come immigrati piuttosto che come rifugiati. Così anche se – come dice uno dei reduci rinchiuso nel campo – Oswego «non rende pulite le mani dell’America» è pur vero che per la loro salvezza e la loro libertà si mosse una commissione del Congresso, due presidenti degli Stati Uniti, Eleanor Roosvelt dalle pagine dei giornali, funzionari dell’esercito e dell’amministrazione civile, religiosi e comitati di appoggio per i rifugiati. Una storia tragica, ricca di contraddizioni, ma a lieto fine. Fatte le debite differenze, niente a che vedere con quel che accade in Italia oggi.