L’uomo poggia la mano sul bracciolo della poltrona, si volta, qualcosa ha catturato la sua attenzione. Ha lo sguardo attento, le gambe accavallate in una posa insieme controllata e disinvolta: indossa camicia e pullover, pantaloni col risvolto, mocassini. Poco lontano, tre personaggi, una donna e due uomini, conversano seduti su un divano, osservati di spalle; uno di loro si interrompe di colpo, il braccio ancora sollevato in un gesto, rivolge lo sguardo allo spettatore. Le silhouettes, a tratti essenziali neri o bianchi, si stagliano nettamente su superfici di stoffa imbottita, stampata a motivi floreali dai toni gialli, rosa, verdi, azzurri, marroni. Queste immagini appaiono in due «tappezzerie» di Cesare Tacchi, Renato e poltrona e Sul divano a fiori, due quadri, entrambi del 1965, tra i più caratteristici della sua precoce maturità artistica (era nato a Roma nel 1940) e di una capacità di cogliere in forma originale e fulminante l’ambiance dell’epoca offrendone al tempo stesso un’interpretazione ironica e disincantata.
A cosa in effetti rinviano i frusti patterns decorativi che non solo fanno da sfondo ma attecchiscono dentro le figure se non alla mistura di aspirazioni moderne e di convenzioni moribonde, di spigliatezza mondana e di sentimentalismo, di inquietudine e di ambizione, che contraddistingue l’Italia nei primi anni del boom? Se i suoi personaggi appaiono del tutto contemporanei, il mobilio di Tacchi rimane in effetti quello, modesto, delle generazioni precedenti, dalle linee pretenziose e soffocanti, come la pesante testiera nera che serra in alto Il letto (pensando a un prato…!), del 1966. Il design non ha ancora riconfigurato l’intérieur piccoloborghese italiano, che si conferma in questi quadri scenario ambiguo, in cui – come nella casa che Marco Bellocchio avrebbe ritratto con impietosa lucidità ne I pugni in tasca (1965) – si mescolano incombenti sensi di colpa e desiderio di fuga.
La lettura di Cesare Vivaldi
Cesare Vivaldi, uno dei critici più attenti alle novità artistiche di quegli anni, aveva lanciato nel 1963 la «giovane scuola romana» individuandovi un modo nuovo, «“mediato” e insieme aggressivo, mordente», di trattare il paesaggio visivo. Crucialmente, Vivaldi – all’epoca assai scettico sul fenomeno del momento, quella pop art peraltro ancora solo indirettamente nota in Italia – riconosce nel medium fotografico, nella sua capacità di distanziamento antiespressivo, la comune matrice del gruppo e del suo sguardo «spietato e nitido» sulle cose. Per Tacchi sono diversi i modi di mettere in pratica questa disposizione: tra ’62 e ’64 il suo modo di operare consiste nel prelievo e nella riduzione bidimensionale del dato fotografico, come si vede in Circolare rossa, del 1963, o in Piazza Navona (particolare), del ’64, col dettaglio della berniniana Fontana dei Fiumi.
Le «incorniciature» così come le imbottiture e le silhouettes e gli altri dispositivi formali che appaiono in questi e altri quadri simili sottolineano la distanza tra pittura e realtà, tra immagine «vista» e la sua restituzione mentale, e hanno in Jasper Johns il loro punto di riferimento. Nel caso invece delle «tappezzerie» un punto di partenza indispensabile sono le transparences che Francis Picabia realizzò tra anni venti e trenta. Fonte essenziale, in anni più recenti, anche per Sigmar Polke, David Salle o Julian Schnabel, Picabia è per Tacchi all’origine di un metodo per negoziare la figurazione, «riappresa» attraverso la fotografia, con altre modalità di creazione d’immagini, quella del linguaggio pubblicitario, anzitutto, ma soprattutto il cinema contemporaneo, da Antonioni a Resnais. Le sue figure viste di schiena, le conversazioni interrotte, il linguaggio del corpo e la sospensione trasognata dei primi piani dei personaggi rinviano in effetti allo stesso universo visivo, e ai suoi sottintesi culturali e simbolici, a cui Michelangelo Pistoletto attingeva per i suoi quadri specchianti di quegli stessi anni.
Una significativa campionatura della parabola artistica di Tacchi è ora raccolta al Palazzo delle Esposizioni di Roma (Cesare Tacchi Una retrospettiva, esposizione e catalogo a cura di Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi, fino al 6 maggio), nella prima approfondita ricognizione della sua opera a quattro anni dalla scomparsa dell’artista. Tacchi, come altri suoi compagni di strada attivi a Roma nei primi anni sessanta (si veda ad esempio la recente monografia di Luca Massimo Barbero, Franco Angeli. Gli anni ’60, Marsilio), ha dovuto attendere a lungo una rivalutazione critica del suo lavoro. Gli sviluppi impetuosi della scena artistica a partire da metà decennio, l’irruzione delle correnti concettuali, minimaliste e processuali, lo choc epocale del ’68, i mutamenti radicali degli orizzonti ideologici e del ruolo di critici e curatori, hanno contribuito a lungo a confinare le esperienze di Angeli, Festa, Fioroni, Lombardo, Mambor, Schifano e dello stesso Tacchi – per citare solo alcuni esponenti della cosiddetta «scuola di Piazza del Popolo» – in una sorta di mitica età aurea, «gli anni 60», con solo le biografie spesso clamorose e tormentate dei protagonisti a controbilanciare la scarsità di nuove interpretazioni.
Maggio ’68, cancellazione d’artista
L’effetto è tanto più accentuato nel caso di figure schive come Tacchi, anche per il radicale mutamento di direzione del suo lavoro sul finire degli anni sessanta, a partire dalla serie di mobili non funzionali, «sculture» dalle lisce superfici di vinile imbottito dai colori sgargianti (Poltrona inutile, del ’67, o Cornice, del ’68, ad esempio), che sanciscono simultaneamente una radicalizzazione in senso pop della sua maniera (il riferimento a Claes Oldenburg è obbligato) e un’apertura a quei nuovi potenziali – ludici, tattili, erotici – esplorati nello stesso periodo dal design radicale. Ma è soprattutto l’emblematica Cancellazione d’artista, un’azione eseguita durante la rassegna Teatro delle mostre alla galleria La Tartaruga, a Roma, nel maggio ’68 – durante la quale, seduto dietro una lastra di plexiglas che lo separa dal pubblico, l’artista dipinge con un pennello il piano trasparente sino a scomparire alla vista –, a rappresentare un punto di svolta, più che solo artistico, sono portato a credere, anche psicologico e biografico. Cancellarsi, sparire dietro l’opera, morire à la Barthes come autore, certo. Ma anche sottrarsi a una nuova realtà «espansa» dell’arte in cui i vecchi punti di riferimento, e con essi il primato della pittura, non valgono più.
Da questo momento Tacchi non tornerà più alla pienezza iconica della sua prima stagione, accostandosi in seguito ai modi tipici delle pratiche concettuali, da cui mutua una vasta panoplia di «procedure» (dattiloscritti, schedari, fotografie, ecc.), e nel cui solco si situa un’azione come Io sono – Tu sei. Due basi per un colloquio, eseguita insieme a Mario Diacono nella sede degli Incontri Internazionali d’Arte a Roma nel 1972. La sensazione, percorrendo le sale dedicate alla seconda, ben più lunga fase del suo percorso, è però che Tacchi non abbia mai ritrovato l’efficacia espressiva del suo primo periodo. Le strategie concettuali impiegate nei suoi lavori sembrano in effetti più «mandate a memoria» che indagate in profondità; anche quando, gradualmente, l’artista torna tra anni settanta e ottanta alla pittura, il suo segno è ormai rarefatto, quasi intimidito dalla dimensione concreta del quadro. Un singolare motivo, un dettaglio del pollice che regge una tavolozza, la cui prima apparizione è in un disegno-talismano del 1984, diventa in seguito simbolo di una rinascita personale, di un rinnovato «puro spirito d’artista», e verrà poi utilizzato come pattern decorativo su una serie di grandi tele monocrome, Lo spirito dell’arte, del 1990. Geroglifico insolito, peraltro in precedenza già apparso ne La mano nei capelli (1966-’67), dagli evidenti sottintesi psicoanalitici, il pollice-fallo come significante della potenza creativa suggella in forma inattesa e non priva di una certa malinconica ironia un ritorno alla pittura come costruzione di realtà alternative e come personale esorcismo.