Schivo protagonista della nouvelle vague romana degli anni Sessanta, Cesare Tacchi è morto nella sua città natale all’età di 74 anni. Profondamente pop non solo nell’iconografia scelta, ma proprio nell’idea di assimilare il quadro alla tappezzeria, trasformava l’opera in un pezzo di arredo: non esclusivamente domestico, come potrebbe sembrare dalla tapissérie un po’ retrò che lo contraddistingueva, ma urbano, vero paesaggio metropolitano. Le sue imbottiture non sono altro che una segnaletica moderna di uno skyline che va mutando i suoi connotati.

È con questa riformulazione del linguaggio estetico che Tacchi ha attraversato i decenni del Novecento, continuando a cucire le sue immagini sulle tele imbottite, offrendo nei musei i suoi patchwork poetici, improvvise apparizioni voyeuristiche, coppie felici, personaggi da rotocalco, icone pubblicitarie. L’armamentario popular c’è tutto, ma il contrappunto lirico si invera nella manualità insistita, nei collage in stile carta da parati, negli arabeschi e le decorazioni floreali o geometriche che «riempiono» le sue sagome.

Dopo un inizio in compagnia degli «osservatori» di Renato Mambor e dei monocromi di Mario Schifano nel 1959, in una mostra presso la galleria Appia Antica, Cesare Tacchi comincerà a gravitare intorno alla Tartaruga, la Salita e l’Attico. Con lui, a fare un bricolage concettuale, c’era tutta la «Scuola di piazza del Popolo» (Festa, Angeli, Lombardo, Pascali, tra gli altri), quella generazione che reinventò l’alfabeto artistico seduta ai tavolini del caffè Rosati. «Il fatto di dare rilievo al quadro voleva dire per me invadere uno spazio e, di conseguenza, anche il quadro veniva invaso dallo spettatore – scriveva -. Quasi veniva voglia di toccare il quadro, le sue forme, le sue morbidezze, i suoi rilievi, ma fino a un certo punto, perché l’opera era pur sempre un bassorilievo e la sua estroversione era limitata».

Cesare Tacchi, mentre preleva tracce dal quotidiano e rivisita le star dell’arte (come la celebre Venere botticelliana), prosegue sulla sua originale strada dei quadri/sculture – soft come gli oggetti di Oldenburg -, fingendo la scomparsa dell’autore, l’anonimato misterioso di quel manufatto artigianale. Ma sarà proprio la perizia calligrafica del suo operare a non permettere mai la «cancellazione di sé» definitiva. Neanche quando, esasperato dal ruolo eccessivo attribuito all’artista, in una performance del 1968, ricoprirà la sua sagoma/ritratto con la pittura fresca.