Inverno 2013, MoMA, New York. M’inerpico all’ultimo piano dove è esposta Inventing Abstraction, 1910-1925 (a cura di Leah Dickerman). È qui che due disegni datati 1924 che, ci avrei giurato sopra non so cosa, erano per me mano di Frank Stella, si rivelarono essere di un architetto e ingegnere polacco, Wacław Karol Szpakowski (1883-1973). Annotato il nome in stampatello per evitare di trascriverlo male, la cosa finì lì e dimenticai presto questo nome ostico da ritenere.
Giugno 2015, Łódz, Polonia. Sgattaiolo via da una conferenza sugli archivi del futuro per visitare il Museo Sztuki. Annoto il nome dell’artista di tre disegni astratti. Confesso, non senza vergogna occupandomi spesso di astrazione, che non ebbi l’impressione di aver già visto queste opere da qualche parte. Erano infatti di Wacław Szpakowski. La sorpresa dell’incontro si rinnovò con la stessa intensità; e quando, con altrettanto stupore, realizzai la coincidenza, venni preso dal furore documentario.
Sembra esserci una sola monografia su Szpakowski pubblicata nel 1992, L’infinitude de la ligne. Introvabile nelle biblioteche italiane, ne esistono quattro copie in Francia, di cui una, fortunatamente, alla biblioteca dell’INHA, a dieci minuti a piedi da casa. Mi fiondo.
Nel 1897, a 14 anni, Szpakowski si trasferisce con la famiglia a Riga, dove trascorre l’adolescenza, studia architettura, suona il violino nell’orchestra giovanile e s’interessa ai fenomeni atmosferici. Tiene un quaderno di appunti su tempeste, uragani e cicloni, e raccoglie fotografie di architetture dalle forme lineari. Custodirà gelosamente questi quaderni malgrado gli eventi bellici e diversi traslochi forzati.
Così si spiegano i lunghi intervalli d’inattività: in molte circostanze, la preoccupazione maggiore era la mera sopravvivenza. Szpakowski, non dimentichiamolo, fa parte di quella generazione che ha vissuto le due guerre mondiali. Ora, nel corso delle sue lunghe traversate tra Lituania, Russia, Lettonia e Bielorussia, non perde occasione per prendere appunti e disegnare, incuriosito dai fili del telegrafo o dall’invisibilità della corrente elettrica. Gli bastava poco, un foglio di carta e una matita, per realizzare quelli che chiamerà i suoi «esperimenti con la linea dritta». Sentendo di non poter incidere sul corso degli eventi storici, Szpakowski trovò nel disegno una superficie disponibile che non sfuggiva al suo pieno controllo.
A inchiostro, più sistematici, rifiniti
A partire dal 1900 riempie tre quaderni di pattern di linee ornamentali (1900, 1903-’07, 1908). Da questi, nel 1923-’33, trarrà circa 70 disegni a inchiostro su carta, più sistematici e rifiniti, divisi per serie di lettere consecutive, da A a F, secondo la composizione visiva.
Dopo un soggiorno in Russia si stabilisce a Varsavia con la moglie, da cui avrà quattro figli, imbarcandosi sull’ultima nave salpata dal porto di Arkhangelsk (Arcangelo) prima che la città sia conquistata dall’Armata rossa. In tempo di guerra, lavora al Ministero della Posta e del Telegrafo e realizza una seconda serie di disegni, questa volta a spirale (serie S). Nel maggio 1945, come in uno scioglilingua, Wacław è a Wrocław, dove resterà fino alla fine dei suoi giorni, lavorando come designer al Centro di ricerca e progettazione per il trasporto stradale e aereo. Nel 1953-’54 realizza un album di 96 disegni con linee ritmiche e griglie più architettoniche. Se nel 1969 il suo nome era noto a una ristretta cerchia di specialisti, Szpakowski morì nel 1973 nel più completo anonimato.
Osservo da vicino quanti più disegni di Szpakowski trovo riprodotti. Come descriverli in breve? Un tratto sottile di 1 mm, distanziato dal successivo da uno spazio bianco di 4 mm., preciso e senza sbavature, con poche cancellature visibili. Il disegno è costituito da una sola linea geometrica continua, una traiettoria a zig-zag che evolve sulla superficie da sinistra a destra. Senza mai rivenire su se stessa, la linea si piega e si ripiega a novanta gradi: è una linea che non si chiude, che non delinea alcunché, che non si fa contorno, forma o spazio ma segna solo il progresso del tempo. Non figura ma puro rythmos.
Il risultato è un pattern simmetrico, frammento di un insieme più grande, di un divenire ininterrotto e ripetitivo. Un meandro ma anche un battito, un ritmo nel senso visivo quanto musicale del termine.
Per semplificare, nei suoi disegni Szpakowski seguiva tre fasi successive: coglieva anzitutto l’ordine matematico soggiacente ai fenomeni naturali e all’universo; isolava i principi di simmetria e ripetizione che li governano; li rendeva visibili con i mezzi grafici più semplici possibili.
Szpakowski, autore di linee disegnate? Senza dubbio, ma anche, per suo volere, di «disegni di idee lineari», con un «contenuto interno» ben preciso. Chi non vede nient’altro che pattern dimentica l’atto performativo richiesto da questi disegni. Lo sguardo infatti è tenuto a ripercorre il tracciato della linea sul foglio, da sinistra a destra, seguendo i suoi tortuosi ziz-zag, come se si trattasse di una scrittura o di una partitura musicale. Solo dopo aver eseguito questa faticosa ginnastica oculare, Szpakowski si congratulò con sua figlia, affermando qualcosa come: hai colto il senso del disegno, sebbene siano stati necessari 935 movimenti!
Effervescenza degli anni venti
Allargo il giro delle mie ricerche: l’attività di Szpakowski, mi è presto chiaro, s’inscrive sullo sfondo più ampio del Costruttivismo polacco (1923-’36). Dall’effervescenza degli anni venti all’istituzionalizzazione degli anni trenta, questo movimento coinvolse pittura e scultura, affiche e tipografia, architettura e progetti industriali, fotomontaggio e scenografia teatrale. Mai movimento artistico s’immischiò di più con la cultura di massa, con risultati estetici eterogenei quanto ancora poco conosciuti: da Władysław Strzeminski, Katarzyna Kobro; i gruppi Blok, Praesens e a.r.; la rivista Zwrotnica; il soggiorno a Varsavia di El Lissitzky (1921) e Malevich (1927), o gli scambi intensi con Berlino nei primi trent’anni del XX secolo.
La cucina analogica dello storico dell’arte è in ebollizione. Dopo un paio di giorni ho riempito un foglio A3 col nome di Szpakowski al centro e una fitta rete di richiami degna, in uno sprazzo di autostima, di un diagramma di Alfred Barr. Eppure non posso ignorare un elemento decisivo quanto disarmante che rischia di mandare il castello di carte in aria: che Szpakowski realizzò le sue opere nel più completo isolamento dal mondo artistico, nella più totale indifferenza verso la produzione contemporanea dell’epoca, polacca o internazionale che fosse. Intrinsecamente moderniste, le sue opere sono tali per difetto, risultato di un modernismo elettivo, privato e, in finale, segreto. Il suo idioma astratto è così intrinsecamente modernista che per ben due volte l’ho confuso per un Frank Stella della fine degli anni cinquanta. E che Stella allora non lo conoscesse ne fa un soggetto intrigante per un diagramma alla Barr.
Come disse Getulio Alviani dopo aver visitato la mostra del 1992: «L’opera di Szpakowski è assolutamente senza tempo: sospesa e asettica, potrebbe essere opera degli egiziani, dei Greci o dei Maya. Possiede lo spirito e l’essenzialità di un’antica scrittura, i cui testi restano nascosti dietro le sue linee asciutte e discontinue». Le sue opere furono esposte per la prima volta proprio a Łódz, dove le rividi, e a Wrocław solo nel 1978. Sporadiche le successive occasioni, tra cui una mostra dell’estate 2016 a Wrocław il cui catalogo è già introvabile. Senza precettori né allievi, più che in penombra la figura e l’opera di Szpakowski restano avvolte in una fitta oscurità. Il suo caso eccezionale ci ricorda che la storia dell’astrazione resta ancora da scrivere, basta uscire dai sentieri battuti. Quello di Szpakowski è ancora esile come la linea infinita dei suoi disegni.