Negli anni successivi al 1989 gli scrittori polacchi hanno manifestato la tendenza a prendere le distanze dal «centro» geografico del paese, che sentimentalmente non è mai riuscito a connotarsi come tale, a causa tanto delle spartizioni quanto delle amputazioni territoriali inflitte dalla conferenza di Yalta. Cominciò così una incessante ricerca delle esistenze degli «altri» ai margini e nelle periferie, dalla Danzica post-tedesca di Pawel Huelle (in Cognome e nome: Weiser Dawidek) o di Stefan Chwin, alla Leopoli post-polacca dei gialli di Marek Krajewski o dei saggi di Adam Zagajewski, alla Breslavia post-tedesca del commissario Eberhardt Mock (il protagonista della saga di Krajewski pubblicata in Italia da Einaudi), alla Slesia neo-polacca (dopo sei secoli di dominio germanico) di Wojciech Kuczok (in Melma).

Solo in piccole patrie altrui – diventate precariamente e accidentalmente proprie a causa di cataclismi geo-politici – gli scrittori polacchi sembrano in grado di accogliere le sfide di una memoria, se non comune, almeno condivisa. Il ritorno centripeto a una Heimat definita in senso nazionale sembra possibile allorché a indagarne i tratti salienti è un osservatore liminale, relegato a una condizione di marginalità (come i gay varsaviani di Michał Witkowski) o addirittura a una dimensione di assenza.

Il ghetto prima del ghetto
L’ha dimostrato di recente Szczepan Twardoch nel noir Il re di Varsavia (a cura di Francesco M. Cataluccio, traduzione di Francesco Annichiarico, Sellerio, pp. 510, € 15,00). A percorrere qui le strade del demi-monde varsaviano degli anni Trenta sono Moises Bernstain, sprovveduto figlio di un ebreo ortodosso, e Jakub Shapiro, pugile ebreo tirapiedi di un patriottico gangster polacco e carnefice del padre di Moises, vittima del racket di «Kum» Kaplica. Questa Varsavia del «ghetto prima del ghetto», che non esiste più, cancellata dallo sterminio operato dai tedeschi, sembra emigrata nella Tel Aviv in cui abita il generale in pensione Moises Inbar («ambra», in ebraico, ovvero l’equivalente dell’yiddish Bernstain), che la rievoca retrospettivamente. Della sua identità di ragazzino ebreo polacco infatti non ha conservato nemmeno il proprio nome ashkenazita. E, similmente, la città in cui viveva prima della guerra è stata smembrata e annientata come il corpo di suo padre, fatto a pezzi dai sicari di Kaplica.

Quella narrata da Twardoch non è un’epopea, bensì la saga di una città nella città, scomparsa insieme ai suoi abitanti, e tuttavia degna di essere raccontata nella sua contrapposizione – spesso vincente – alla città egemone. Il vero protagonista del romanzo è infatti Jakub Shapiro, pugile del Maccabi capace di stendere in meno di un round il suprematista Andrzej Ziembinski, rappresentante del Legia, un club sportivo ancora oggi sostenuto da una tifoseria fascisteggiante. D’altra parte Shapiro è spinto da un’oscura pulsione distruttiva, la stessa che in seguito avrebbe animato gli uomini della unità 101 di Tsahal, «tanto inclini a uccidere quanto a ridere». Ma Shapiro nel 1937 appare – al contrario del fratello Moris (il quale «mangiava, respirava, studiava, lavorava, viveva per il futuro stato ebraico in Palestina») – del tutto tetragono alle lusinghe del sionismo: la sua piccola Gerusalemme è il lussuoso appartamento che si è fatto arredare a Nalewki, sordida strada giudaica dove povertà e tanfo gli permettono di isolarsi dagli ebrei assimilati e dai polacchi di quartieri residenziali quali Mokotów o Zoliborz da lui tanto disprezzati.

La moglie di Jakub, Emilia, sa bene però che Nalewki non potrà essere mai la casa di nessun ebreo, perché i polacchi, testardamente intenzionati a far diventare Varsavia «una città europea», priva di effluvi asiatici, non lo permetteranno.

La Varsavia cancellata dal cataclisma della storia ha spazzato via anche l’esistenza precedente di Mojzesz Bernsztajn, la cui vita «in ebraico suonerebbe diversamente».

Mojzesz ha cessato di essere europeo, o forse non lo è mai stato: «Io sono il tat-aluf Moises Inbar, che combatte contro gli arabi in Medio Oriente da più di quarant’anni Io europeo? Quando mai sono stato europeo?»
Moises come individuo è messo in discussione dall’atto sacrilego con cui ha avuto inizio la sua biografia consapevole: «Jakub Shapiro ha sgozzato Naum Bernstain per salvare la vita di Moises Bernstain, affinché potessi vivere, diventare il generale Moises Inbar», così interpreta a distanza di anni l’assassinio del padre.

L’edizione italiana normalizza la grafia del nome Mosé, uniformando il polacco Mojzesz (Bernsztain) e l’ebraico Moshe (Inbar, nella trascrizione polacca «Mosze») e ricorrendo a un unico Moises, con l’effetto di oscurare il senso della mutazione spirituale del personaggio, adombrata da un cambio di nome che ha un illustre precedente nella più nota opera del romanticismo polacco, il dramma Gli avi di Adam Mickiewicz, il cui protagonista, Gustaw «rinasce» come Konrad. Il riferimento a Gli avi non è l’unica allusione metatestuale: molto più esibita e insistita è quella rappresentata dal capodoglio Litani, che si libra nel cielo sopra Varsavia, spalancando occhi infuocati e intonando una melopea tragica che può essere udita solo da Jakub e Moises.

L’enigmatico, metafisico Litani rimanda all’episodio biblico di Giona, ma anche a Moby Dick di Herman Melville, debitamente citato in esergo al libro: un elemento fantastico che ha, inoltre, la funzione di rendere il lettore consapevole della inaffidabilità della voce narrante, caratteristica su cui Twardoch calca fin troppo la mano nel finale.

Se il romanzo sembra inizialmente costruito su un sapiente equilibrio tra ambito diegetico «ingenuo» e prospettiva metaletteraria, uno sconcertante colpo di scena intacca le certezze accumulate fin lì dal lettore. Quando Moises scompare dalla trama è un generale in pensione che sta scrivendo i suoi ricordi di ex bandito varsaviano mentre, sconcertato, non si ritrova più nella sua lingua: «Mi sento come se stessi dimenticando l’ebraico. Ormai penso soltanto in polacco. L’yiddish l’ho dimenticato tanto, tanto tempo fa». Tuttavia, di lì a breve una inopinata rivelazione lo trasformerà in tutt’altro personaggio.

«Ebrei tornate in Polonia»
Il protagonista del romanzo ha davvero raggiunto Tel Aviv? Oppure non si è mai spostato da Varsavia? L’incertezza di Moises richiama alla mente un video di colei che è probabilmente l’artista contemporanea israeliana più significativa, Yael Bartana. In Mary-Koszmary (Ombre-Incubi, 2007) l’attivista polacco Sławomir Sierakowski, leader del raggruppamento «Krytyka Polityczna», lanciava ai cittadini israeliani un insolito appello: «Ebrei, tornate in Polonia, tornate nel vostro, nel nostro Paese! Vogliamo che facciano ritorno in Polonia tre milioni di ebrei e che abitino di nuovo insieme a noi. Tornate, per favore, abbiamo bisogno di voi». Ed è proprio in questa direzione che Twardoch struttura un finale aperto, lasciando ipotizzare che almeno uno dei tre milioni di ebrei invocati in Ombre-Incubi abbia fatto ritorno in Polonia. Anche se diventare il re dei gangster di Varsavia implicava il fatto di non abbandonarla.