«Impregnando la grandiosità romantica di ironie moderniste, Syberberg offre uno spettacolo sullo spettacolo, evoca il “Grande Show” chiamato Storia. Per ritrarre Hitler viene esaminato il nostro rapporto con Hitler (il tema è “il nostro Hitler”, “l’Hitler in noi”), e gli orrori del nazismo, giustamente non assimilabili, sono rappresentati nel film di Syberberg come immagini o segni». Così, nel 1980, Susan Sontag rivelava agli Stati Uniti il capolavoro di Hans-Jürgen Syberberg che qualche settimana fa è tornato sugli schermi italiani, nella fattispecie nella splendida sala della Fondazione Prada di Milano, per una retrospettiva curata da Luc Tuymans.

Syberberg, forse il cineasta più sperimentale e radicale del Nuovo cinema tedesco, certamente il più “rimosso” dalle Storie del Cinema, per l’occasione è tornato in Italia, per “rimettere in scena”, ancora una volta la sua elaborazione collettiva della tragedia del nazismo, un cerimoniale cinematografico che mette sotto processo Hitler e il pensiero dominante tedesco.

In tutta la sua opera, ma specialmente nella trilogia tedesca (Ludwig, Requiem für einen jungfräulichen König, Karl May e Hitler, un film dalla Germania), la questione della scrittura della Storia sembra di fondamentale importanza. Ludwig II di Baviera, Karl May e Adolf Hitler sono personaggi fortemente connessi alla storia della loro Germania ma, al tempo stesso, sono figure ammantate di leggende, mitologie, finzioni. Può dirci come ha lavorato in questa apparente dicotomia?

Per ogni film era importante trovare una soluzione per presentare queste persone come non “realistiche”, specialmente nel caso di Hitler. Quando era in vita, era conosciuto visivamente quasi solo attraverso i cinegiornali e quindi il mio occhio doveva cercare di fuggire dalla persona “reale” e rifugiarsi nella percezione che noi abbiamo avuto di lui, forse anche per questo, in molti paesi, il film è uscito con il titolo Il nostro Hitler.

C’è stato un momento, nella mia vita, in cui pensavo di poter aggrapparmi, in senso filmico, quasi unicamente alla realtà, specialmente quando negli anni ’60 giravo documentari ma poi, dopo aver diretto Winifried Wagner und die Geschichte des Hauses Wahnfried 1914-1975 (Winifried Wagner e la storia della casa Wahnfried dal 1914 al 1975), filmando la vedova del figlio di Richard Wagner in un monologo lungo 5 ore, ho capito che una vita ai confini del fantastico, come la sua e quella della sua mente, non poteva realmente sembrare “vera”.

Nel film, Winifried mette tra parentesi gli “eccessi hitleriani” rappresentando perfettamente la posizione ideologica di quella borghesia sostenitrice di Hitler, che dopo il 1945 non ha rimesso in discussione nulla del proprio passato, quindi, anche per questo, non si trattava di un documentario sulla sua vita ma di pura finzione.

A proposito di riflessioni sul passato, il personaggio-narratore del film si chiama Ellerkamp ed è presente in tutto il film. Nella terza parte è interpretato da Harry Baer, il suo Ludwig di cinque anni prima, e questo personaggio instaura un dialogo con Hitler, in forma però di marionetta. Sembra quasi un processo alla Storia, oltre che un dialogo fra il suo film precedente e questo…

Ellerkamp è in qualche modo l’autore del film. E’ lui che pone le domande, che muove e lascia agire i personaggi e gli attribuisce dei ruoli. Compie una sorta di processo e, proprio durante l’interrogatorio, domanda alla marionetta-Hitler “Perché hai fatto questo?” ma, contemporaneamente, risponde al posto della marionetta.

Le marionette fanno parte del mondo dell’infanzia, ovvero un mondo pre-razionale quindi, come il cinema, devono assomigliare all’irrazionale, all’artificio, alla dimensione mitica. Harry Baer, come lei ha sottolineato, è stato il mio Ludwig dunque, a un altro livello, si tratta anche di una sorta di tribunale della Storia oltre che di una connessione, quasi musicale, con il mio film precedente.

In uno dei suoi saggi, ha detto che un film deve essere disegnato come la musica e nel suo cinema, l’utilizzo della musica classica è strettamente correlato all’immagine, quasi in giustapposizione, specialmente nel montaggio di Hitler, un film dalla Germania

Normalmente, quando vediamo un film al cinema, c’è sempre una musica che corrisponde all’atmosfera del film, in sintonia con l’immagine e la trama, ma per me la musica è qualcosa che deve svilupparsi secondo le sue regole e non basarsi su quelle del cinema. Per questo c’è un utilizzo massiccio di musica classica nel mio cinema, dove, rispetto alla musica moderna, esiste un ordine ed è all’interno di questo sistema ordinato e orizzontale che costruisco le mie immagini.

Quando chiamai il mio film Ludwig – Requiem für einen jungfräulichen König (Ludwig, Requeim per un re vergine) pensavo a un progetto estetico omogeneo alle regole universali della musica. Si trattava, in qualche modo, di una dichiarazione di guerra alle forme del cinema dell’epoca. Volevo un linguaggio che avesse la struttura del monologo, a blocchi, con una voce solista, o un coro, delle partizioni di parole, dei silenzi, dei piani fissi insistiti, una chiarezza epica, proprio come una messa da requiem

All’inizio di Hitler, un film dalla Germania, la sua voce pronuncia alcune frasi come “Frammenti di una proiezione interiore” e “Fantasie filmiche davanti al nostro occhio interiore”. Perché ha scelto questa prospettiva e come riesce a conciliarsi con il soggetto politico?

Quelle frasi sono espressioni poetiche per descrive il carattere frammentario del film. Per “proiezione” intendevo letteralmente il processo tecnico della proiezione e, metaforicamente parlando, la proiezione dell’immaginario e dei pensieri, una dialettica di sentimenti e domande, specialmente politiche, con le quali ci siamo confrontati e ci confrontiamo ancora.

Luc Tuymans, che ha incluso il film nella sua retrospettiva, ha detto che Hitler, un film dalla Germania è fondamentale, soprattutto per i tempi moderni, in un momento storico dove il populismo si sta espandendo in tutta l’Europa. «Hitler è un film su un paradiso perduto e le sue tragedie» ha detto Tuymans «sull’ultimo grande periodo della nostra Storia. Hitler come esempio della fine di una certa Europa» E’ d’accordo con questa affermazione?

Le parole di Luc mi riempiono di gioia, sono esattamente quello che ho sempre pensato del mio film. Riguardo alla sua feroce attualità, posso dire che viviamo sempre un tempo che è la fine di qualcosa d’altro e, allo stesso tempo, la ripetizione di quanto già avvenuto, ma quello che mi conforta è che questo è certamente un periodo storico allarmante e, come all’epoca del nazismo, si stanno distruggendo tante cose ma nemmeno Hitler ebbe mai il potere di distruggere tutto.

Il suo corpus cinematografico passa dal documentario dei primi anni ’60, ai lungometraggi degli anni ’70-’80 fino all’approdo al mezzo televisivo con gli adattamenti letterari insieme ad Edith Clever, ai confini tra cinema e teatro, dove sembra sopravvivere soltanto il contenuto “visibile” della parola. Da qualche anno però la sua attività si è interrotta…

Ho smesso di fare film ma faccio ancora cose che hanno a che fare con il cinema. Per esempio, qualche anno fa, ho realizzato per Documenta X a Kassel, un’installazione di 32 piccoli film, e ora, da parecchi anni, ogni giorno, sul mio sito internet, compilo una sorta di diario fotografico-musicale che non potrei fare se non avessi avuto una precedente conoscenza del cinema. E’ una specie di film lungo vent’anni.

Un tempo volevo, e speravo, che il cinema fosse una sorta di redenzione dei nostri sensi schiacciati dal progresso, pensavo stesse per diventare una sorta di nuovo mondo e che le persone organizzassero la propria vita secondo la sua struttura.

Ma, tornando a oggi, sempre sul mio sito, ho delle webcam sempre accese, come se girassi dei lunghissimi piani sequenza, che filmano il mio giardino che respira, l’esterno della mia casa e il mio cielo quindi, nella mia vita, c’è sempre una macchina da presa che lavora e non si spegne mai.