«Abbiamo fame, non c’è lavoro, vogliamo vivere con dignità e diritti per tutti» scandivano venerdì, per il quinto giorno consecutivo, centinaia di siriani drusi nella piazza principale di Sweida, nel sud del paese. Già due anni fa la popolazione di questa provincia, nota come filo-Damasco, andò in strada a manifestare contro il peggioramento delle condizioni di vita nella Siria emersa mezza distrutta dalla guerra civile alimentata dagli interessi geopolitici di Usa, monarchie del Golfo e Iran. A Sweida non pochi hanno invocato democrazia e diritti ma le contestazioni di questi giorni scaturiscono soprattutto da fattori economici. Sono  una reazione alla decisione presa dal governo all’inizio di questo mese di escludere centinaia di migliaia di famiglie dal programma di sussidi statali, un colpo duro per l’80-90% della popolazione che vive sulla soglia di povertà o sotto di essa. Appelli ad organizzare proteste sono stati lanciati in altre aree ben controllate dal governo come Tartus e Latakia mentre un centro statale di distribuzione di generi alimentari è stato distrutto da manifestanti a Maysaf.

È improbabile che le manifestazioni nel sud del paese si diffondano a macchia d’olio nel resto del paese. Troppe famiglie sono ancora scottate dalla guerra – hanno avuto morti, feriti e la casa distrutta –, dalla pesante repressione del governo e dalle brutali esecuzioni di civili e soldati compiute dalle organizzazioni jihadiste, a cominciare dall’Isis. Però i siriani sono disperati. Il reddito medio mensile è di 70.000 lire (circa 20 dollari) ma una famiglia ha bisogno dell’equivalente di 275 dollari per sopravvivere. Da 47 lire per un dollaro nel 2000, il cambio ora è di 3.625 lire per dollaro. Questo inverno le famiglie hanno ricevuto, con la smart card governativa, appena 20 litri di gasolio. Una quantità insufficiente per riscaldarsi e tanti hanno preferito vendere il carburante al mercato nero.

Le sanzioni statunitensi (Caesar Act) e occidentali contro Damasco fanno sentire il loro peso in un paese in ginocchio dove scarseggiano i generi di prima necessità, la corruzione è parte della vita quotidiana e i traffici illegali, incluso quello della droga lungo la frontiera con la Giordania, sono l’unico modo per sopravvivere per tanti siriani. Washington e i suoi alleati vedono nelle proteste dei siriani per l’aggravarsi delle condizioni di vita una strada per tentare di sovvertire l’esito della guerra vinta sul terreno dal presidente Bashar Assad. Il governo, infatti, non ha risorse e liquidità. Il budget statale è passato di circa 9 miliardi di dollari nel 2020 a 5,3 miliardi nel 2022.

Allo stesso tempo Damasco non poche volte prende decisioni che si rivelano un passo falso. Il 29 gennaio le autorità hanno annunciato che avrebbero smesso di calmierare il prezzo del pane, dello zucchero e del carburante, misura di cui hanno goduto anche i benestanti, e che avrebbero garantito sussidi solo a coloro che ne hanno reale bisogno. Nei giorni successivi si è scoperto che circa 600.000 famiglie – circa il 15% del paese – sarebbero state escluse dall’aiuto perché posseggono un’auto con una cilindrata superiore a 1500, più proprietà, una licenza commerciale, un investimento turistico, una impresa industriale o il capofamiglia ha lasciato il paese.
Rispondendo alle proteste, la viceministra delle comunicazioni, Fadia Suleiman, ha spiegato che «circa 687mila persone hanno lasciato la Siria ma continuano a beneficiare degli aiuti» e aggiunto che se la persona fosse il capofamiglia, «l’intera famiglia sarà esclusa dal sussidio». Nei giorni seguenti migliaia di famiglie prive o a basso reddito hanno scoperto di essere state escluse dagli aiuti pubblici a causa di errori amministrativi, perché il capofamiglia vive all’estero o è proprietario di un’impresa. E il futuro si prevede persino peggiore per i siriani. «A causa del deterioramento delle condizioni economiche – spiega l’analista Karam Shaar – dobbiamo aspettarci un aumento della criminalità e della militarizzazione del paese. Più persone si ritroveranno senza lavoro e più si uniranno alle milizie, unica possibilità di sopravvivenza per tanti siriani».