Dalle parole ai fatti in meno di 24 ore. Le minacce velate ma neanche troppo, pronunciate dal capo di Stato maggiore dell’esercito Constantino Chiwenga lunedì scorso, la sera dopo erano si erano già tramutate in truppe e mezzi alla periferia della capitale Harare e all’alba di ieri avevano la sagoma minacciosa dei tank e dei blindati in pieno centro. «Cessino le epurazioni – aveva detto Chiwenga riferendosi alla recente cacciata del vice presidente Emmerson Mnangagwa – o difenderemo la nostra rivoluzione».

 

large_171115-130810_to151117xin_0202

 

DETTO FATTO. L’esercito ieri mattina aveva il controllo delle strade in cui si trovano la tv di stato Zbc (Zimbabwean broadcasting corporation) e il parlamento, sedi di ministeri, tribunali. E poco dopo il generale Sibusio Moyo, portavoce delle forze armate, appariva dagli schermi per dire che no, che malgrado le apparenze non si trattava di un golpe: il compagno presidente sta bene, «è al sicuro con la sua famiglia – ha detto – mentre noi ci stiamo occupando dei criminali che lo circondano e che stanno portando sofferenze sociali ed economiche al paese».

IN POCHI CI HANNO CREDUTO, stante il rispetto e l’aura immarcescibile di cui gode ancora oggi il 93enne leader della liberazione, ininterrottamente presidente da quel giorno del 1980 in cui venne archiviato il regime razzista di Ian Smith e la storia della Rhodesia.

In serata le notizie che parlano di un Mugabe messo agli arresti domiciliari, prossimo all’annuncio delle dimissioni, sono cominciate ad arrivare dal vicino Sudafrica, dove il presidente Zuma ancor prima di averne la conferma aveva inviato a Harare due suoi ministri. La sua reazione è sembrata comunque cauta, quasi che a Pretoria ci si acconterebbe di una transizione pacifica, nel rispetto della Costituzione, abbandonando così al suo destino lo storico alleato. Il quale avrebbe strappato ai militari solo una sorta di salvacondotto per la moglie Grace Mugabe, che forse si trovava già all’estero, in Namibia, per non meglio precisati «affari».

 

large_171115-162823_to151117reu_373

 

PARTICOLARE NON SECONDARIO, perché la figura e le aspirazioni della first lady, che i suoi avversari chiamano first shopper in riferimento a una presunta mania compulsiva negli acquisti e nel culto del lusso, sono assolutamente centrali nelle vicende che hanno portato al clamoroso gesto dei militari e a queste drammatiche ore. Oggi 53enne, la donna che sposò Mugabe nel 1996, con Mandela tra i 40 mila presenti, tre figli con l’eterno presidente e un futuro segnato per prenderne un giorno il posto, aveva proprio in Mnangagwa, il vice licenziato, il suo principale antagonista.

DOVERSI DIFENDERE dall’accusa di aver tentato di avvelenare l’avversario è stata solo una delle ultime prove sostenute da Grace Mugabe. E il ricorso all’immunità diplomatica per sfuggire all’arresto in Sudafrica, dopo aver pestato una modella che non le faceva strada, è il modo in cui è finita recentemente sulle prime pagine dei gioenali di mezzo mondo.

NELLA LOTTA INTESTINA definitivamente esplosa nel partito al potere, lo Zanu-Pf, Grace Mugabe ha il sostegno incondizionato della componente femminile e dei cosiddetti G 40, i quadri più giovani, che vedono in lei un punto di riferimento per voltare pagina. Cosa ci fosse scritto forse non lo sapremo mai, Non sorprende che tra gli arrestati figuri anche il ministro delle Finanze, Ignatius Chombo, uno dei giovani emergenti più vicini alla first lady.

Messo alla porta lo scorso 6 novembre per «carenza di rispetto, slealtà, inganno e inaffidabilità», Mnangagwa, più volte ministro e a lungo capo amministrativo del partito, ha lasciato il paese da giorni. «Troppe minacce incessanti alla mia persona, alla mia vita e alla mia famiglia da parte di coloro che hanno tentato di eliminarmi attraverso vari metodi, tra i quali l’avvelenamento». È quanto si legge in una dichiarazione riportata ieri da Chris Mutsvangwa, leader dell’Associazione dei veterani della guerra di liberazione. Un tempo legati a Mugabe nella speranza di ottenere il “bottino di guerra” promesso, che poi esasperati dall’attesa cominciarono a riprendersele da soli le terre, provocando la fuga dei “coloni” bianchi rimasti e le furie di Londra.

GOLPE O NO, DISCRETA CAUTELA traspare persino nel monito lanciato dall’Unione africana, che «condanna con la massima fermezza quello che sembra essere un colpo di Stato e ribadisce il suo pieno sostegno alle istituzioni legittime dello Zimbabwe», come ha detto il presidente di turno (oltre che della Guinea-Conakry) Alpha Condé. Sprezzante, come era prevedibile, il commento della Gran bretagna, con il ministro degli Esteri Boris Johnson che si augura solo di non assistere al passaggio dei poteri «da un tiranno all’altro» e spera che il paese scelga il suo futuro con «elezioni libere». Come quelle che Mugabe si avviava probabilmente a vincere, ancora una volta, l’anno prossimo.