È un procedimento che parte da lontano quello che ha portato il Brasile a riconoscere, giovedì scorso, il reato di omotransfobia.

Il 23 maggio 2019, sei ministri – Celso de Mello, Edson Fachin, Alexandre de Moraes, Luis Barroso, Rosa Weber e Luiz Fux – degli undici che compongono la corte del Tribunale supremo federale (Stf), detentore del potere giudiziario dello Stato, hanno riconosciuto un’insufficienza legislativa nella mancanza di una legge adatta a inquadrare i crimini di omofobia e transfobia. Di fronte alla lacuna, la proposta è stata quella di assimilare provvisoriamente il crimine al razzismo, per la sua applicabilità a ogni discriminazione delle minoranze sociali, non solo afrodiscendenti (punto controverso per i giuristi locali, considerato che il razzismo in Brasile è ufficialmente un crimine non cauzionabile e non prescrittibile); la pena per tali reati è fino a 3 anni di carcere.

La questione era aperta da anni: nel 2012 era stato mosso un mandato di ingiunzione contro il Congresso Nazionale da parte dell’Associazione brasiliana lesbiche, gay, bisessuali, travestiti, transessuali e intersessuali (Abglt); nel 2013, il Partito popolare socialista aveva proposto una mozione diretta di incostituzionalità per omissione contro lo stesso Stf. Entrambe le azioni erano volte proprio a calcare l’urgenza di una norma regolatrice dei reati ai danni della minoranza lgbt, da trent’anni individuabile appena nell’art. 5, comma XLI della Costituzione Federale del 1988, che assicura «la condanna di qualunque discriminazione contro i diritti e le libertà fondamentali». Nel codice penale brasiliano, insomma, niente di specifico per punire la discriminazione per orientamento sessuale e di identità di genere, diversamente da quanto accade per quella per colore della pelle, razza, religione e discendenza nazionale.

A febbraio di quest’anno, il ministro Celso de Mello, dal 2007 membro più anziano della corte, aveva proposto che il reato di razzismo fosse esteso anche alle questioni legate all’identità di genere. La scelta era stata sostenuta dal ministro Edson Fachin, il quale aveva definito l’omissione legislativa come un’«offesa a un senso minimo di giustizia». Il presidente della corte José Antonio Dias Toffoli, tuttavia, aveva sospeso il giudizio (allora fermo a quattro voti a favore dell’inserimento della legge), con il pretesto di un decorso inaspettatamente lungo. È stato, quindi, ripreso nel corso della settimana passata e, con altri due voti favorevoli, il Tribunale supremo federale ha raggiunto la maggioranza necessaria a riconoscere la condotta omofoba come crimine. Successivamente, Toffoli ha nuovamente sospeso il processo, con previsione di riapertura per il prossimo 5 giugno.

Nonostante l’avvenuta formazione della maggioranza, il Tribunale non si è ancora pronunciato sulla scadenza per la redazione di una legge apposita. L’avvenimento, comunque, sembra epocale non solo nel contesto politico attuale (alcuni membri del parlamento hanno già chiesto l’impeachment dei consiglieri che hanno votato a favore), ma anche in quello diacronico che vede il Brasile, ormai da anni, in vetta al ranking mondiale dei Paesi che uccidono più appartenenti al gruppo lgbt. Secondo le statistiche divulgate lo scorso novembre dalla ong austriaca Transgender Europe, dal 1° ottobre 2017 al 30 settembre 2018 sono stati riportati 369 casi di persone transgender assassinate in 72 Paesi; 167 di questi (omicidi per mezzo di arma da fuoco o da taglio, per pestaggio o impiccagione) riguardano il solo Brasile. Stando ai dati raccolti dalla ong dal 2008, in dieci anni si sarebbero registrati 2.982 delitti con vittime transgender, dei quali il 46% (1,238 omicidi) in Brasile.