Prima l’occupazione, poi l’inflazione. «La Federal Reserve ha approvato una nuova strategia che chiuderà una fase durata più di trent’anni, in cui i tassi sono stati alzati preventivamente ogni volta che fosse necessario evitare un aumento dell’inflazione», ha dichiarato nei giorni scorsi il capo della Banca centrale americana J. Powell.

In concreto, questo dovrebbe significare che gli Stati Uniti non andranno più in panico se l’inflazione dovesse superare la soglia fatidica del 2%, la stessa che fissa convenzionalmente la Bce.

Fatto storico? Beh, diciamo che si tratta di una notizia importante. La svolta monetarista dei primi anni settanta (anche allora negli Usa), com’è noto, trovò la sua giustificazione – e il suo alleato – nella crescita dell’inflazione «a doppia cifra», dopo anni di stabilità dei prezzi e di piena occupazione. Si parlava di «spirale salari-prezzi».

Intervenire sui salari o sui prezzi? Si scelse una terza via: la leva monetaria. Tassi di interesse alti, meno soldi in circolazione, prezzi giù.

La teoria quantitativa della moneta tornava a nuova vita, Milton Friedman prendeva il posto di J. M. Keynes. I risultati arrivarono, ma al prezzo di un crollo degli investimenti pubblici e privati e di un aumento altrettanto significativo della disoccupazione, che, in fondo, era il vero obiettivo della svolta: più disoccupazione (al suo «tasso naturale»), maggiore ricattabilità dei lavoratori, profitti più alti per i padroni.

Gli anni più recenti, nondimeno, si sono incaricati di dimostrare quanto poco scientifica fosse l’equazione politiche monetare restrittive uguale bassa inflazione e viceversa.

Infatti, è proprio il viceversa che maggiormente non torna.

Dopo la crisi del 2007-2008, dagli USA all’Europa si è sperimentato che l’inflazione può rimanere bassa, bassissima, anche in presenza di politiche monetarie ultra-espansive (tassi a zero e quantitative easing). E con la crisi pandemica ciò è diventato ancora più evidente. Se c’è un crollo della domanda, i tassi di interesse, da soli, non bastano. Serve anche un’espansiva politica di bilancio ed un ruolo interventista dello Stato.

Per questo, anche la scelta della Fed va trattata con moderazione. La decisione, in sé, ha delle implicazioni importanti sia sul versante della teoria che della pratica, rompe un tabù, ma non siamo al funerale della «curva di Phillips», modello che mette in relazione inversamente il tasso di disoccupazione e quello di inflazione, utilizzato ancora dalle banche centrali nelle loro scelte di politica monetaria e dal potere economico per dire che un certo numero di disoccupati è il prezzo che si deve pagare per mantenere l’inflazione entro limiti accettabili (a nulla è valsa la lezione della «stagflazione» degli anni settanta, quando alta inflazione e disoccupazione andavano a braccetto). Salvo che non si tratti di lavoro precario e sottopagato.

Il numero magico del 2% rimane, ma viene considerato «nella media del periodo». Se un anno si va troppo sotto si apre il cordone della borsa, che si stringe l’anno dopo se si va troppo sopra.

L’inflazione, insomma, rimane un riferimento cardine nella politica monetaria della banca centrale, ma non ossessivamente. E resta, soprattutto, una fiducia eccessiva nella capacità della politica monetaria di risolvere da sola o quasi i problemi dell’economia.

Quando Powell dichiara che «la banca centrale accetterà una crescita dell’inflazione più alta allo scopo di tendere alla piena occupazione», sembra non tener conto dell’inadeguatezza delle politiche economiche fin qui seguite, sia in America che in Europa, nell’ultimo decennio almeno.

Liquidità a iosa, politiche fiscali anemiche, redistribuzione verso l’alto della ricchezza. Il coronavirus ha impattato su un sistema già malato, incapace di espandere benessere, sicurezza sociale e diritti ormai da troppo tempo.

Anche la politica monetaria «espansiva» ha favorito la ripresa del gioco d’azzardo finanziario a scapito della crescita equilibrata dell’economia e della società. Soldi, tanti soldi che non hanno scalfito minimamente la condizione di indigenza o precarietà lavorativa di milioni di persone da un capo all’altro dell’Atlantico.

Purtroppo, il problema non sono solo i tassi d’interesse, ma l’assenza di una politica statale capace di assecondare crescita economica e giustizia sociale. Non è scritto da nessuna parte che se vogliamo far crescere la ricchezza, la stessa dovrà essere distribuita in maniera vergognosamente diseguale. Semmai è vero proprio il contrario.