Da ieri in Marocco le violenze contro le donne sono un reato penale. Anni di mobilitazione delle organizzazioni delle donne sono riusciti ad archiviare un risultato storico, sebbene alcuni giudichino la nuova legge ancora troppo debole.

Approvata a febbraio dal parlamento di Rabat, non senza difficoltà tra un passaggio e l’altro tra le camere e a ben dodici anni dalla prima lettura (all’epoca votarono a favore 83 deputati contro 22), la legge Hakkaoui – dal nome della ministra della Famiglia che l’ha proposta – inasprisce e in alcuni casi introduce per la prima volta pene da un mese a cinque anni e multe da 200 a mille dollari per stupro, violenze domestiche, matrimoni forzati, molestie sessuali o via web.

Un passo avanti in un paese scosso ad agosto da una disumana brutalità: una gang di 15 uomini, tutti giovani tra 18 e 27 anni, ha tenuto prigioniera per due mesi la 17enne Khadija. Due mesi di inferno: è stata torturata, picchiata, stuprata, marchiata con un numero indefinito di tatuaggi (disegni, nomi, addirittura una svastica). Fino alla «liberazione» in cambio del silenzio.

Khadija non è stata zitta, però: è andata in tv a mostrare il suo corpo devastato, marchiato come fosse proprietà di qualcun altro. Tanto forte è stato lo choc che la società marocchina si è mobilitata con manifestazioni e raccolte firme per chiedere giustizia. Il Marocco e le sue donne combattono da tempo contro le violenze di genere, spesso trasformate – come avvenuto anche in Egitto, negli anni caldi della rivoluzione, e nella vicina Tunisia – in strumento di limitazione della partecipazione femminile alla vita politica, economica e sociale del paese.

Nel 2009 lo Stato promosse un sondaggio che evidenziò una dinamica strutturale: il 62,8% delle donne tra i 18 e i 65 anni aveva dichiarato di aver subito abusi di tipo sessuale, psicologico, fisico o economico; il 55% di essere stata vittima del partner, il 13,5% di un familiare.

Ieri le battaglie nelle piazze, le campagne in rete, le pressioni sui partiti politici si sono tradotte in una prima vittoria. Perché la legge non è completa: non riconosce lo stupro commesso dal marito né definisce con precisione la violenza domestica. E soprattutto non prevede sostegno legale o finanziario alle donne che denunciano.

Insomma, lo Stato condanna ma poi non fornisce i servizi necessari a sostenere la vittima, quali rifugi sicuri e denaro, misure fondamentali in una società che si porta ancora dietro il peso di pratiche tradizionali patriarcali e, come accade anche dall’altra parte del Mediterraneo, con il trasferimento della colpa dall’aggressore alla vittima.

Se in molti dei 1.600 stupri denunciati nel 2017 (il doppio rispetto al 2016), la donna ha avuto il sostegno della famiglia, questo può venire meno nelle zone rurali e più marginalizzate, dove una denuncia può tradursi nell’isolamento e nella perdita della propria rete di affetti. Una realtà raccontata dal film Beauty and the Dogs, della regista Kaouther Ben Hania, ambientato in Tunisia ma universalmente applicabile al Nord Africa post-primavere.

È la storia di Mariam, studentessa universitaria violentata da un gruppo di poliziotti, e del suo viaggio all’interno di una burocrazia patriarcale e misogina che la rivoluzione non ha ancora sradicato. Ma che le donne continuano a combattere, passo dopo passo.