L’azzurro del cielo è solcato da linee convergenti verso un sole alto e invisibile. Se ne intuisce l’intensità luminosa dal giallo abbagliante riflesso sul lago. I raggi solari intercettano la silhouette del monte che discende con linee verticali cadenzate di indaco e rosa. Il resto del paesaggio è fatto di linee orizzontali, curve o spezzate, e dai colori cangianti in cui i valori naturali hanno ceduto il passo all’armonia della composizione.
Siamo in Egandina, nel 1907, ed è questa una sperimentale Veduta di Capolago di Giovanni Giacometti, padre di Alberto. Osservando l’opera ci si chiede dove sia finito il prezioso divisionismo naturalista, caro a Segantini, dell’Autoritratto davanti a un paesaggio invernale che l’artista ha realizzato appena sette anni prima. Segni di insofferenza Giacometti li mostra già nel 1905, quando con chiari accenti Art Nouveau si cimenta nell’Arcobaleno. Ma è in fondo la sua formazione parigina, condivisa con l’amico Cuno Amiet, che lo porta a investigare la maniera di Van Gogh e successivamente in modo più sistematico i colori della luce (Luce e ombra del 1912).
Come molti artisti svizzeri della loro generazione, Giacometti e Amiet continuano gli studi a Monaco per perfezionarli a Parigi. Nell’ottobre del 1888 si inscrivono all’Académie Julian, dove si respira un’aria di maggiore apertura internazionale e il dialogo sulle nuove tendenze è proficuo. «Non tutti siamo diventati famosi – ricorda in età matura Amiet – ma in seguito abbiamo spesso sentito o letto un nome che ha suscitato ricordi in noi. Dopo molti anni, ho capito che uno di noi aveva l’orgoglioso nome di Bonnard». Oltre a Pierre Bonnard, anche Maurice Denis e Paul Sérusier hanno studiato contemporaneamente all’Académie Julian, e con loro tanti pittori che ammirano Gauguin e Van Gogh e che si considerano profeti – Nabis, appunto – di una nuova arte. E se Giacometti, mancando di mezzi economici, dopo poco più di un anno deve rientrare in Svizzera, Amiet si reca in Bretagna, e a Pont-Aven fa sue le investigazioni della comunità di artisti che vi si è installata. Ed è qui, e precisamente dall’irlandese Roderic O’Conor, che Amiet apprende la pittura per linee (Ragazzo mendicante con pane del 1894). La stessa che Giacometti sperimenta dieci anni più tardi nella Veduta di Capolago di cui abbiamo parlato all’inizio.
Tra gli artisti svizzeri che in quel periodo studiano all’Académie Julian ci sono anche Max Buri e Hans Emmenegger, che, a differenza di Giacometti e Amiet, fanno ritorno alla formazione tedesca. Emmenegger, a seguito del passaggio parigino, si libera del mito di Arnold Böcklin per seguire una strada dove nel dettaglio naturale trova nuove composizioni astratte, come nel bellissimo quanto allora incompreso ritaglio del Piccolo battello a vapore si riflette nell’acqua, 1909. E Max Buri, scoraggiato dalla pittura «troppo liscia» dei suoi insegnanti dell’Académie, insegue i motivi, le composizioni e la precisione grafica dei tedeschi per i ritratti dei suoi contadini in abiti tradizionali, più congeniali al mercato d’arte svizzero. Il suo lavoro tradisce una certa ammirazione per Wilhelm Leibl, mentre la tavolozza, più chiara, testimonia comunque della conoscenza dell’impressionismo, come nel Suonatore di fisarmonica in compagnia del 1906.
Va ricordata inoltre la figura di Martha Stettler, che, dopo una formazione tra Berna e Ginevra, a Parigi si emancipa da ogni forma di accademismo sotto l’impulso di Lucien Simon, pittore vicino ai Nabis. È lui a incoraggiarla a fondare nel 1909 l’Académie de la Grande-Chaumière, che avrà tra i suoi allievi Alberto Giacometti, Balthus, Alexander Calder, Joan Miró e Louise Bourgeois. Tra gli insegnanti propone il decoratore Eugène Grasset, che tanta parte ha avuto nell’affermazione di un altro grande svizzero: Augusto Giacometti, cugino di Giovanni. Grasset, originario di Losanna, insegna arti applicate e design industriale, oltre a pubblicare studi di composizione e applicazione ornamentale delle piante. Molti rappresentati dell’Art Nouveau hanno assistito ai suoi corsi parigini. Nel 1896 Augusto Giacometti è tra questi, e all’epoca possiede già un notevole senso del colore, evidente nelle sue astrazioni compositive ispirate alle vetrate del museo di Cluny e alle farfalle del Jardin des Plantes: piccoli gioielli colorati che preannunciano i suoi quadri non figurativi realizzati a partire dal 1912. Ma la più avanguardista di questa generazione è sicuramente Alice Bailly, la sola a non aver studiato a Parigi e forse per questo ad aver immediatamente assorbito il linguaggio fauve prima e cubo-futurista poi, che le è valso l’apprezzamento di Apollinaire nel Salon d’Automne nel 1913 (anno in cui è lei a organizzare la prima esposizione cubista in territorio elvetico).
È di questa generazione di pittori svizzeri nati intorno agli anni settanta dell’Ottocento che ci parla oggi la mostra curata da Paul Müller e Sylvie Patry al Musée d’Orsay: Modernités suisses (1890-1914), in corso fino al 27 giugno (attualmente il museo è chiuso causa Covid-19). Attraverso una selezione di settanta opere realizzate in un’epoca cruciale della modernità, si scoprono figure che fuoriescono dai propri confini nazionali, e più in generale dai confini accademici, per affrontare le nuove frontiere dell’arte. Frontiere osservate anche in artisti svizzeri appena precedenti, come Vallotton, che lascia sedimentare nella stilizzazione nabis il proprio tratto grafico naturalizzandolo francese; o, di una generazione prima, Segantini, che, mentore divisionista, assicura il valore commerciale alle proprie opere e si rinchiude nella torre d’avorio di una mitica vita pastorale e alpestre; e Hodler, capace di essere al contempo maestro indiscusso del simbolismo internazionale e genius loci per le più giovani generazioni erranti, grazie a uno stile formale di ripetizioni e simmetrie, mai distante dall’umano.