“Lotteremo fino alla fine per impedire una privatizzazione scellerata che mette a rischio il futuro dei lavoratori”. Sottoscrivono gli sportellisti degli uffici, i portalettere, gli addetti alla logistica. Tutti (o quasi) i 140mila addetti di Poste Italiane. Un colosso, anche finanziario, con 14mila uffici disseminati sul territorio. Sul quale però è calato il silenzio. Non certo per colpa dei lavoratori: dalla Lombardia alla Basilicata, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, dall’Abruzzo all’Alto Adige, dal Veneto alle Marche, gli ultimi mesi sono stati scanditi da scioperi, manifestazioni e blocco degli straordinari. Con una piattaforma sintetica e di facile lettura: “No alla privatizzazione aziendale decisa del governo al solo scopo di fare cassa. No alla mancanza di investimenti del piano industriale. No al progetto di riorganizzazione del recapito e della logistica, che ha creato grandi disagi a lavoratori e cittadini”.
Eppure in questa estate le voci raccolte dalla quasi totalità dei media sono state solo quelle del ministro Padoan e dell’amministratore delegato “postale” Caio. I quali, fino a due giorni fa, ribadivano che il 29,7% del capitale sarebbe stato venduto in autunno, così come nello scorso ottobre era stato piazzato in borsa il 35,3%, per circa 3 miliardi. E con il 35% restante affidato in primavera (per altri 3 miliardi ma di fatto con una partita di giro) nella Cassa depositi e prestiti. A detta del governo, per mantenere le funzioni di indirizzo e controllo al ministero dell’Economia.
Questo fino a poche ora fa. Perché all’improvviso, è arrivata la notizia che il collocamento del 29,7% residuo potrebbe slittare all’anno prossimo. Ufficialmente, annota il Sole 24 Ore, in vista di un’operazione di offerta non vincolante su Pioneer, la società del risparmio gestito messa in vendita da Unicredit, che ha un enorme bisogno di trovare soldi freschi per diminuire l’entità di una necessaria ricapitalizzazione da 5-7 miliardi. Sempre secondo il quotidiano di Confindustria, “a convincere i vertici del gruppo è anche la volatilità dei mercati e l’andamento del titolo, che si attesta al di sotto del prezzo di collocamento che era stato fissato a 6,75 euro per azione”. Mentre in questi giorni il titolo di Poste Italiane oscilla fra i 6,35 e i 6,38 euro.
Premesso che fra gli analisti finanziari molti non credono a un reale interesse di Poste Italiane per Pioneer, il rinvio a tempi migliori della vendita era stato spiegato già nel luglio scorso dalla Cgil e dalla sua categoria Slc. Detto in una frase: sarebbe una operazione ancor più in perdita. “A rappresentare l’assoluta leggerezza e assenza di progetto industriale complessivo con cui si intende procedere alla vendita – denunciava Corso d’Italia – vi è in primo luogo la totale assenza di valutazione del quadro finanziario internazionale, che indurrebbe un governo responsabile a ripensare l’intero percorso”.
A seguire l’annotazione che le prospettive di Poste Italiane sono solide (“Diversi studi delle banche di investimento internazionali posizionano il titolo ad aprile 2017 all’interno di un intervallo tra 7,13 e 8,15 euro”). Quindi perché vendere ora, perdendo “dai 100 agli 800 milioni”? Risposta semplice: perché nei piani del Mef per questo 2016 ci sarebbero 8 miliardi da incassare con le privatizzazioni, soldi concordati con la Ue e messi nero su bianco nel Def 2015. Documento destinato a finire nel cestino, visto che dalla privatizzazione del 46,6% delle azioni di Enav sono stati incassati 800 milioni circa, e che la (s)vendita di Ferrovie è anch’essa rinviata a data da destinarsi.
Va da sé che il governo Renzi potrebbe vendere il rinvio nell’ottica, di brevissimo periodo ma decisiva, del referendum costituzionale. Anche perché nel frattempo doveva arrivare il parere – non vincolante – della Camera, e che quindi tutto l’affaire sarebbe finito sotto i riflettori delle tv. Per giunta Cgil, Cisl, Uil, Cobas, Failp-Cisal, Confsal e Ugl non si stancano di ricordare: “Lo Stato, cedendo le azioni, incorrerà in una perdita secca e irreparabile, non incassando più la cedola annuale versata da Poste: la dismissione della prima tranche di azioni ha già significato una perdita di 157 milioni nel 2015”. Almeno altrettanti in questo 2016, e fatti due conti l’operazione andrà comunque in perdita nel giro di pochi anni.
Anche per questo i 140mila lavoratori delle Poste continuano a protestare. “Sono a rischio i settori più deboli come il recapito e la logistica – denunciano – e regna l’incertezza anche nei settori più forti come il bancario e l’assicurativo, visto che Cassa depositi e prestiti è, in parte, in mano alle fondazioni bancarie”. Solo la punta di un iceberg fatto di carenza di personale, attrezzature obsolete, dismissioni dei Cmp come ad esempio quello di Sesto Fiorentino (800 lavoratori), mobilità e prepensionamenti a iosa. Mentre il postino arriva già oggi un giorno sì e uno (due) no, quando va bene.