«Da ragazzino ero appassionato di cinema. Per le copie non censurate dei film stranieri in Iran c’era il mercato nero. Mi toccò vendere molti libri per comprare Padre Padrone. La versione censurata durava quasi la metà dell’originale. Dopo tanti anni, una delle prime cose che feci una volta in Europa fu comprare quel film. Infilai il vhs nel registratore e scoprii che durava 10 minuti in più della copia iraniana non censurata. Chi aveva rischiato la vita per procurarsi Padre Padrone ne aveva tagliato un pezzo. Lì ho capito quanto è profonda dentro di noi la censura».

Fariborz Kamkari ci accoglie nella sua casa romana. Sul fuoco té del Mar Caspio, alle pareti foto di famiglia e miniature iraniane. Con lui – regista, sceneggiatore e romanziere, autore di film come Black Tape e I fiori di Kirkuk – parliamo del suo nuovo libro, edito da La Nave di Teseo, Ritorno in Iran (pp. 352, euro 19). Una storia semi-autobiografica: un regista curdo iraniano che vive e lavora in Italia torna in Iran dalla madre che è in ospedale. L’ultima volta che l’ha vista lui aveva 13 anni e lei aveva tentato di ucciderlo con le forbici. Il vero viaggio inizia dopo l’atterraggio a Teheran: il protagonista imbocca di nuovo il sentiero tracciato dalla rivoluzione khomeinista ma anche quello della resistenza del Rojhilat, il Kurdistan iraniano.

La storia dell’Iran e del Rojhilat e quella del protagonista si specchiano l’una nell’altra: la vittoria della Repubblica islamica e la trasformazione forzata ma non sempre di successo della società, la ricerca di un’identità definita, la lotta tra spinte contrastanti, tra la resistenza collettiva e l’individualismo. Come descriverebbe il senso di questa storia?
È la storia della mia generazione, nata a cavallo tra due regimi, quello dello scià e quello khomeinista. Fu un cambiamento epocale: la nascita del primo regime islamico basato sull’islam politico moderno dopo 70 anni di regime filo-occidentale, super modernista almeno in superficie. Lo scià sognava una Svizzera nel deserto dell’Iran, questo creò contraddizioni ma apportò anche cambiamenti fondamentali nella società. Per questo la rivoluzione non è riuscita a dare vita alla propria società ideale: nelle città, dove all’epoca viveva il 40% della popolazione, c’era una classe media abituata a vivere diversamente. Ce ne siamo resi conto subito, perché la rivoluzione nacque progressista e fu poi dirottata dagli islamisti, molto più organizzati grazie al sostegno dell’Occidente e dello scià che li usavano per creare una cintura verde che frenasse l’avanzata comunista. In una tale situazione, il destino individuale non può staccarsi da quello collettivo. È sempre stata una mia ossessione, quanto la vita di un individuo sia influenzata dalla grande Storia. Una rivoluzione come quella iraniana è stata sconvolgente sul piano individuale, per chiunque, famiglie distrutte, genitori che denunciavano i figli e viceversa. Avevo compagni di classe che, senza immaginare le conseguenze, avevano denunciato i genitori perché non pregavano. Solo crescendo hanno capito e ora si portano dietro questo peso enorme.

I personaggi che narra sono «doppi», ambigui, portano con sé luce e buio, compiono scelte cupe ma sono anche capaci di generosità. Alla fine non si salva nessuno?
Non si salva nessuno. Un situazione così estrema porta a prendere posizione. Tutti sanno cosa succede, dal bambino all’adulto. Non si può essere indifferenti. Soprattutto nella società curda, di per sé molto attiva. La prima repubblica curda nacque nel 1946 in Iran e durò due anni, fu poi demolita militarmente dallo scià. Ma è ancora oggi la parte più attiva del paese, politicamente e socialmente. È un rifugio per la società civile e i movimenti progressisti iraniani.

Le figure femminili sono decisive, portatrici di una potenza che non ha solo effetti nelle rispettive vite ma definisce anche quella del protagonista. Che in qualche modo «giustifica» scelte proprie con l’influenza delle donne che hanno accompagnato la sua esistenza.
Il loro protagonismo deriva dalla mia esperienza. La presenza delle donne potrebbe impressionare un osservatore esterno, ma lo si vede nel Bakur, nel Rojava, nel Rojhilat. E nel resto dell’Iran. Khomeini non è riuscito a realizzare il suo sogno per colpa delle donne: erano ormai uscite dalla gabbia, impossibile rimettercele dentro. Il sistema è stato disegnato contro le donne, a partire dai privilegi familiari degli uomini (i diritti sui figli, il divorzio, le quote dell’eredità). Però poi in Iran le donne fanno tutto, pilota, chirurga, artista.

Nel romanzo i reali scopi dei personaggi sono occulti. L’ambiguità restituisce un sistema tentacolare e nebuloso, in cui le persone finiscono per essere pedine.
È quello che fanno i regimi, far diventare i cittadini delle pedine. Il capitalismo fa lo stesso, in forma diversa. Il regime fonda il suo potere sull’attività capillare dei servizi segreti che spesso creano potenziali nemici per distruggere quelli reali. Inventa il tuo nemico per annichilire te.

Il romanzo è molto fisico, corporeo. Sesso, torture, tentati omicidi e tentati suicidi. È un linguaggio che deriva dalla sua attività di regista?
Deriva dalla necessità di raccontare l’individuo. Nell’Iran dell’epoca, con la camicia bianca che indosso ora potevo essere arrestato. Qualsiasi elemento che allontanava l’individuo dall’immagine che la società voleva avesse era punibile. L’ossessione della cultura iraniana per le sfumature, lo si vede nelle miniature, era applicata anche dalla polizia morale: leggere e rileggere ogni elemento per catturare una stortura. La fisicità del romanzo è lo strumento che uso contro quell’imposizione: la resistenza che plasma la forma fisica, i corpi. Questo ha generato anche un elemento spettacolare, la polarizzazione tra vita pubblica e privata. Due estremi. Nella società ci si mostra in un modo, tra le mura di casa in un altro. La vivacità di persone che nella vita pubblica sono quasi invisibili è una forma di resistenza all’oppressione sociale. E non ha classe, lo fanno i poliziotti, i dirigenti, i cittadini di qualsiasi estrazione.

Che ruolo hanno gli intellettuali iraniani?
Ci sono grandi artisti ma pochi combattenti. Il sistema è stato disegnato in modo da espellerli o da cooptarli, spesso involontariamente. L’ossessione per le sfumature di cui parlavo prima c’è anche nel controllo della cultura e dell’arte. Ha creato un linguaggio. Film iraniani, anche con elementi di critica economica e sociale, hanno un doppio linguaggio: un messaggio per il mondo fuori e uno per quello interno. Un esempio è la poesia, molto astratta, uno degli elementi centrali della cultura iraniana: la poesia del più grande, Hafez, può essere interpretata in due modi opposti, c’è chi lo ritiene un islamista e chi un infedele. Si resiste anche così, però, con un linguaggio che manda messaggi diversi a seconda del destinatario. Ovviamente c’è il contraltare: l’autocensura.

Lei ha scritto «Ritorno in Iran» in italiano. È una scelta che dipende dall’autocensura involontaria o dalla necessità di distacco? È come raccontare la storia di un altro?
Come raccontare la storia di un altro. Per me scrivere in italiano è stata una liberazione: sono capace di scrivere una storia del genere solo in una lingua che non è la mia. È così profonda in me la censura che certe parole non le concepisco se non come proibite. L’italiano mi ha permesso di essere più leggero e di soffrire di meno: nella mia lingua so quale peso ha ogni singola parola.