Uno degli edifici più iconici di Tirana è il Museo di Storia nazionale, un lungo rettangolo color sabbia che troneggia su piazza Scanderberg. La facciata è occupata per due terzi dal mosaico «Gli Albanesi», inaugurato nell’1981, che ritrae uno accanto all’altra personaggi di tutte le epoche. Al centro c’è l’Albania moderna rappresentata da una donna che avanza, un passo avanti agli altri, braccia alzate al cielo e fucile impugnato in una mano.

Durante il regime di Enver Hoxha le donne albanesi erano protagoniste di un discorso pubblico di parità ed emancipazione. Se prima del 1944 società e famiglia erano modellate su principi clanistici e patriarcali, con la presa del potere del Partito dei lavoratori (e delle lavoratrici) viene trapiantata, quasi chirurgicamente, una realtà nuova. Le donne, nelle città e nelle campagne, vengono inserite nei programmi di alfabetizzazione forzata. Le tradizioni religiose vengono bandite, l’intero paese è messo a lavoro e addestrato militarmente.

«Il regime per alcuni aspetti migliorò la condizione della donna, inserendola in strutture sociali collettive e equiparandola dal punto di vista dei diritti formali agli uomini. Ma la libertà di scelta era del tutto assente nell’Albania comunista. Non solo erano vietati l’aborto e l’omosessualità, ma i vecchi schemi culturali patriarcali venivano interamente riassorbiti dal nuovo corso socialista. Non era socialmente accettata la libertà sessuale, non venivano riconosciuti diritti riproduttivi, e soprattutto le donne continuavano a essere le uniche titolari del lavoro di cura. Sul genere femminile pesava un triple burden (triplo carico): dovevano lavorare, partecipare alle attività politiche e propagandistiche, e occuparsi a titolo esclusivo dei lavori domestici e della cura dei figli. Erano senza dubbio i soggetti più sfruttati».

A parlare è Ermira Danaj, ricercatrice in gender studies all’Univeristà di Lisbona. Questa miscela di emancipazione formale e forte retaggio patriarcale ha costruito le premesse per lo spaventoso arretramento in cui il paese è piombato negli anni immediatamente successivi al crollo del regime. «Nei primi anni novanta con il dilagare della disoccupazione e la privatizzazione selvaggia dei servizi pubblici le donne sono tornate nelle case, relegate alla cura dei bambini e degli anziani, unico perno delle famiglie lacerate dall’esodo. Sono anche sparite dalla politica che si è trasformata in una giungla di interessi privati e corruzione. È stato l’intervento degli attori internazionali a portare le prime ong che si occupavano di diritti delle donne e per molti anni tutto quello che si muoveva su questo fronte veniva dall’alto». Anche molte delle nuove leggi sono state approvate sotto la pressione delle istituzioni internazionali e delle organizzazioni umanitarie attive sul campo, come la decriminalizzazione dell’omosessualità nel 1995, la legge sulla violenza domestica del 2006, o la legge sulla parità di genere nel 2008, quasi in assenza di un’attivazione sociale e un movimento di opinione pubblica su questi temi. Almeno fino a pochi anni fa.

Oggi il panorama è diverso, la spuma della nuova ondata globale di femminismo lambisce anche le terre aspre delle Aquile. Lo scorso 23 dicembre, nella piazza dedicata a Madre Teresa di Calcutta, un gruppo di donne ha inscenato una coreografia cantando un adattamento della canzone «El violador eres tu», inno contro la violenza maschile creato dalle femministe cilene e riproposto in tanti altri paesi. «Ci siamo rese conto che quella canzone parlava a noi, cosi abbiamo deciso di tradurla in albanese e adattarla al nostro contesto. Con un gruppo di studenti universitarie e altre attiviste abbiamo organizzato il flash mob. Subito dopo siamo state contattate da un gruppo femminista del Kosovo che voleva fare lo stesso, abbiamo dato a loro la nostra traduzione aiutandole ad adattarlo per la versione kosovara. Questo scambio ci ha aiutato ad avviare un dialogo». La voce è quella di Gresa Hasa, studente universitaria attiva nel gruppo di sinistra «Organizata Politike».

 

La violenza domestica e il femminicidio sono piaghe gravissime nel paese. Dall’inizio del 2020 sette donne sono state uccise dai loro partner, dati impressionanti per un paese che ha meno di tre milioni di abitanti. Nonostante l’aggiornamento delle normative, che oggi sono in linea con quelle dei paesi europei, l’ Ocse delinea uno scenario preoccupante. Uno studio condotto su un campione di 1858 donne dai 18 ai 74 anni mostra che il 22% delle intervistate ha subito violenza fisica o sessuale, quasi una su cinque, mentre il 53% ha subito qualche forma di violenza domestica. Il 34% ha subito molestie, e la cifra cresce tra le donne che hanno un impiego. Il dato più allarmante è che le donne non denunciano la violenza, solo il 3% delle sopravvissute ha riportato alle forze dell’ordine un episodio. Tra i motivi appaiono la paura, la vergogna e la sfiducia nell’aiuto delle istituzioni.

In Albania esistono solo nove case rifugio, di cui 4 dedicate alle sopravvissute della tratta e 5 a quelle della violenza domestica. Altro elemento che emerge dallo studio è l’impatto dei condizionamenti culturali, per cui oltre il 60% delle donne trova accettabile la frase «una buona moglie deve obbedire a suo marito anche se non è d’accordo». Emerge tuttavia una differenza generazionale, con le più giovani meno disposte a tollerare una normalizzazione della violenza. «L’oppressione femminile è anche legata alle condizioni materiali: molte provengono dagli strati sociali più svantaggiati, alcune sono disoccupate o vengono sfruttate per stipendi che non consentono nemmeno la sopravvivenza» prosegue Gresa Hasa.

Segnali positivi tuttavia ci sono. Un gruppo formato da tre ragazze albanesi di 16 anni, D3c0ders, ha vinto il primo premio «TechInnovation» del 2019, una competizione internazionale la cui premiazione si tiene a San Francisco. Il loro merito quello di aver inventato una app «Gjej Za» (in albanese «Trova voce») per aiutare le donne che subiscono violenza domestica. L’app offre informazioni per riconoscere le varie forme di violenza e fornisce collegamenti con i servizi di supporto locali. «Sappiamo che è il risultato di una mentalità arretrata che si trasmette di generazione in generazione. Anche i più giovani sono coinvolti, tra i nostri coetanei vediamo i primi segni di come abuso e controllo maschile vengano considerati come parte normale di una relazione» hanno dichiarato le ragazze intervistate dall’Unicef. La tecnologia gioca un ruolo importante nello scorrere dei rivoli esigui ma potenti del femminismo in Albania. «La parola femminismo fa ancora paura all’opinione pubblica.Ma ci sono delle novità in questo senso, alcune ragazze iniziano a definirsi femministe e a organizzarsi in gruppi informali. Poi ci sono delle associazioni che non temono l’approccio femminista come la GADC o la ong Refleksione. Anche le molestie, vengono denunciate raramente perché normalizzate dalle pratiche sociali e dai media» spiega Ermira Danaj, ricercatrice. Tra i segnali di vita della galassia femminista c’è il gruppo facebook «Feminizmi Shqiptare» che conta oltre 14mila iscrizioni. Con una pagina fb ha iniziato il suo percorso pubblico anche l’Alleanza Lgbtq+ albanese.

«Abbiamo iniziato nel 2009 come gruppo informale di 4/5 donne lesbiche che si incontravano per parlare della propria situazione e scambiarsi informazioni. Poi abbiamo deciso di fare una pagina fb che ha avuto subito qualche centinaia di iscritti. All’inizio facevamo azioni notturne, avevamo paura di aggressioni o stigmatizzazioni. Poi nel 2012 abbiamo deciso di fare il primo Pride albanese, a Tirana. Eravamo 12 persone in piazza. Oggi ce ne sono 500. Abbiamo creato anche una rete tra gruppi lgbtq nei balcani che si chiama «Era», e ci diamo molta reciproca solidarietà». Il racconto è di Xheni Karaj, portavoce dell’Alleanza Lgbtq albanese e attivista. Quest’anno a Tirana c’è stata una mobilitazione per l’8 marzo che ha visto unirsi in una manifestazione diversi collettivi e associazioni.