Credevamo di essere un paese di adolescenti, che una volta raggiunta la fatidica età di teen-ager, nessun’altra trasformazione ci colpisse più e ci toccasse trascinare la nostra adolescenza fino a limiti impensati: 90, 95 anni. E la maturità, che secondo Shakespeare è tutto, non ci toccasse mai.

Ma era vero solo in parte. Non è vero per quella parte della popolazione che dirige i nostri destini. Non è vero in politica. Lì l’adolescenza è una meta obsoleta, solo alcuni la raggiungono, flemmaticamente dinoccolati (non so, Bersani, Fassino..). Gli altri si fermano pervicacemente all’infanzia. Non a un’infanzia qualsiasi, ma alla migliore, alla più desiderabile: viziata, spaccona, capricciosa, prepotente. Un’infanzia maleducata.

Quella è un’età felice, in cui non ci sono limiti tranne quelli che genitori compiacenti mettono a malincuore, quella in cui sei il più bello, il più fico, il più seducente, il più ascoltato, almeno in un luogo, la tua casa.

E questo spiega la politica italiana. A eccezione di Berlusconi, nato vecchio (anzi, come si dice in spagnolo, ‘viejo verde’), i capetti che abbiamo dovuto subire e che stiamo subendo appartengono a questa ambita categoria. La strafottenza di Renzi, che ci ha buttato nelle braccia della Lega, la brutalità di Salvini, che sdraiato davanti a un western col suo paccone di popocorn, avrà sognato di fare il cattivo e di spadroneggiare con la pistola indifferente alle leggi e alla vita umana, il dondolìo di Di Maio che gioca ai soldatini di piombo con il suo fiacco passo militare (siniist-deest, siniist-deest), per non parlare di tutti quelli che stanno loro intorno, a chi mai ci possono far pensare se non a quei ‘discoli’, eternamente dietro la lavagna, e ai loro sogni di gloria?

Ma perché allora ce li teniamo?

Perché siamo tutti dei sognatori, inconsapevoli che i sogni possono marcire, e che sono i sogni marciti a produrre le guerre, le dittature, le migrazioni; che i sogni sono il nutrimento dell’anima, o il suo rigurgito, quando si affacciano timidamente al risveglio per poi sfilacciarsi e sparire al primo sbadiglio di consapevolezza; ma guai a inseguirli, tenerli stretti, brandirli come armi improprie. Guai a considerarli una proprietà inalienabile, su cui esercitare dei diritti.

I migranti che sognano di sbarcare sulle nostre rive, hanno portato stretto fra i denti il loro sogno, per il quale hanno venduto la casa, passato tre anni in prigioni buie e puzzolenti, sono stati stuprati e picchiati, e ora, appena mettono piede sul nostro suolo, invece di svegliarsi, sorridono, come se lo avessero raggiunto.

Di fronte a loro c’è il sogno del padrone di schiavi, con la frusta in mano, che quando la vede sbattere nell’aria e smuovere il vento, invece di svegliarsi, ridacchia soddisfatto.

Sono entrambi vittime dei propri sogni, e noi dei loro e dei nostri.

Personalmente, più che ai sogni, credo alle illusioni. Penso che senza un’illusione tenace la vita non sia granché. Ma l’illusione non ha l’arroganza del sogno perché è sempre attraversata dal dubbio, e si ricompone dopo la sconfitta, con timida, trepida forza.

Oggi la mia illusione è che il mio paese si svegli e scrolli via il sogno di un presente che non c’è,
e affronti quello che c’è: un presente difficile, aspro, inospitale, anche per noi privilegiati, un presente che abbiamo contribuito a creare coi nostri sogni. E lasciamo che i nostri sogni maturino in una tenace illusione, quella di ricomporre la nostra terra desolata, non solo la zolla sotto i nostri piedi, ma la zolla più ampia che lo sguardo può abbracciare, e ci occupiamo di lei, adulti tenacemente illusi, lasciando i bambini giocare fra loro.

Come dice la Bibbia: «Non lasciate che le piccole volpi distruggano le vigne..».