Tra i non pochi equivoci del cosiddetto Pensiero Unico perdura la manomissione del nesso che lega storia e memoria e che il senso comune ritiene infatti equivalenti, quando dovrebbe essere ovvio, viceversa, che la memoria accampa ricordi e ricostruzioni soggettive del passato mentre la storia si fonda, o dovrebbe, su uno spoglio di documenti oggettivi e di testimonianze passate al vaglio di una procedura scientifica.
Se dunque la storia può essere condivisa, non è pensabile una memoria in grado, per esempio, di riconciliare i ricordi di una vittima con quelli del suo medesimo carnefice. Lacerata e di continuo precariamente ricomposta fra i dati della storia collettiva e i revenant della memoria individuale, la narrativa di Patrick Modiano si potrebbe dire che non abbia mai trattato d’altro se non di tale antitesi.

Un reietto di elezione
Nato a Boulognes-Billancourt nell’estate del ’45, e cioè all’indomani della seconda guerra mondiale, figlio di una attrice fiamminga di carattere sventato e costumi eccentrici come di un ebreo di ascendenti italiani, un uomo di mille mestieri e oscuramente colluso coi nazisti occupanti, Modiano, cresciuto tra affidatari e famiglie fittizie, a lungo ignaro della reale identità dei genitori, orfano di fatto e reietto di elezione (così scrisse alla maniera di una clausola nel suo libro più scopertamente autobiografico, Un pedigree, Einaudi 2005), autore di libri collocabili nel genere che oggi si dice memoir o autofiction: «Sono un cane che fa finta di avere un pedigree». Dedurre il passato dal vuoto dove si incontrano il mistero di una singola origine, la sua, e gli infiniti eventi di qualcosa che molto e troppo la trascende, la Shoah, l’annientamento degli individui simili a lui, i suoi incogniti fratelli in effigie, e di cui a lungo era stato inconsapevole, ignaro: questa è l’ossessione di uno scrittore sempre fedele a sé stesso (alla ricerca della matrice misteriosa che lo turba e lo opprime) e sempre necessariamente ripetitivo nella costruzione di romanzi prossimi a dossier o a inchieste di cui però si sa in anticipo incerta o impossibile la soluzione. È la parabola fatale, in altri termini, dei libri che lo hanno reso celebre a partire dall’eponimo che tutti li riassume in emblema, Dora Bruder (Guanda 1998), la storia pressoché virtuale di una adolescente ebrea, passata dal concentrazionario di Drancy, periferia di Parigi, al crematorio di Birkenau, la cui unica traccia residua è un trafiletto sul giornale, l’allarmata inserzione che ne annuncia l’improvvisa scomparsa e di riflesso, mutamente, ne denuncia la deportazione.

Il vuoto e il silenzio costernato che presto si effondono in Dora Bruder sono la sostanza volatile da cui la narrativa di Modiano non può né intende mai recedere, istituendo un paradosso o un vero e proprio cortocircuito fra storia e geografia o, meglio ancora, fra cronaca e topografia e pertanto, ancora una volta, fra le impellenze di una memoria personale sfuocata e i limiti di una storia anonima e del tutto spersonalizzata.

Topografia parigina
La narrativa di Modiano ha Parigi quale eterno epicentro, la sua pagina è un autentico stradario, abbonda di dettagli topografici ma è molto reticente (semmai li allude, dandoli per persi o scontati) circa i dati cronologici. Si potrebbe anche dire che, per lui, lo spazio è solido e immutabile mentre il tempo è liquido e revocabile costantemente in dubbio. Lo conferma un titolo dei suoi anni buoni, gli anni novanta, Dall’oblìo più lontano (traduzione di Emanuelle Caillat, Einaudi, pp. 142, € 17.50), la cui filigrana autobiografica scandisce le tappe di un breve, naturalmente irresoluto, romanzo di formazione.
C’è un ragazzo che sopravvive vendendo vecchi cataloghi d’arte alle librerie del Boulevard Saint-Michel e c’è una coppia di giocatori d’azzardo, due spiantati di dubbi natali, che casualmente entrano nella sua vita all’apparenza spenta e marginale: costoro si chiamano Jacqueline e Van Bever, abitano in alberghi a ore, vanno e vengono, si interpongono e scompaiono ma nello stesso tempo coinvolgono, e anzi irretiscono, il protagonista.

Se Van Bever, giocatore incallito, si eclissa o smuore al cospetto di lei dentro un silenzio da suddito, Jacqueline è invece una Dafne che promette l’amore, sempre si concede ma fatalmente si dilegua, muta e crudele, di fatto una omicida. Sembra in effetti che Jacqueline si dia ad ogni uomo che la incontri ma al solo patto di poter sparire subito e senza un perché. Agli occhi di colui che la insegue e invano tenta di rinvenirne l’anagrafe, i connotati, la reale identità, Jacqueline è come l’incarnazione magra e pallida di un’utopia, quella che Stendhal chiamava la promesse de bonheur, qui tuttavia deludente, evanescente.

Colui che dice io, il protagonista del romanzo, infatti la ritrova e la perde due volte, prima a Londra dopo una fuga giovanile e poi, un ultima volta, a Parigi dopo averla per caso incontrata, e sotto il falso nome di Thérèse, a un’improvvida cena fra intellettuali. Jacqueline non è certo Dora Bruder ma, per via occasionale e sentimentale, mette in moto le dinamiche e i contraccolpi psicologici di ogni sparizione: «Parole vuote, frasi vacue, come se io e lei fossimo sopravvissuti a noi stessi e non potessimo nemmeno più fare la minima allusione al passato. Lei era perfettamente a suo agio in quel ruolo. E non la biasimavo: anch’io, man mano, avevo dimenticato praticamente tutta la mia vita, e ogni volta che parti di essa si erano ridotte in polvere avevo provato una piacevole sensazione di leggerezza».

I genitori entrano in scena Così nella resa stilistica c’è la stessa leggerezza, svagata e insieme ossessiva, che asseconda la cadenza dei ricordi parziali, sfuocati, di qualunque autobiografia e massime di quelle che la storia assale, erode o ustiona ab origine, come nel caso di Modiano. Se è quasi obbligatorio riconoscere nel protagonista una sua ipoteca personale (chi incontra per l’ultima volta la fiamma di un tempo afferma di essere un romanziere), forse non è improprio individuare in controluce nelle figure di Jacqueline-Thérèse e di Van Bever il profilo dei genitori dello scrittore, Louisa Colpijn e Albert Modiano. Sappiamo in particolare di quest’ultimo (e suo figlio lo venne a sapere già grande, ricevendo la notizia con un senso di colpa inespiabile) che riuscì a salvarsi dalla deportazione grazie ai traffici, contrabbando et alia, con gli aguzzini della Gestapo francese, sita in un ufficio al civico 93 della rue Lauriston, XVI arrondissement, nel cuore di Parigi. Tuttora la rue Lauriston è una via così stretta da apparire chiusa e senza sbocco, stranamente silenziosa, quasi buia, vicinissima alle strade, alle stazioni del métro e agli alberghi in cui si accampa la memoria di Dall’oblio più lontano.

Il discorso per il Nobel
Del resto in Patrick Modiano agisce una poetica che può essere variata all’infinito ma non può mai essere mutata o, tanto meno, smentita. Nell’accettare il Premio Nobel del 2014 (Discours à l’Académie suédoise, Gallimard 2015) ha dichiarato infatti, quasi congedandosi dai suoi lettori: «… Per la massa di oblìo che copre tutto, non si riesce a catturare che qualche frammento del passato, trecce interrotte, destini umani fugaci e quasi inafferrabili. // Ma senza dubbio la vocazione del romanziere, davanti alla pagina bianca dell’oblìo, sta nel far risorgere qualche parola semicancellata, come quegli iceberg isolati che vanno alla deriva sulla superficie dell’oceano».