Ahmad versa il caffè nei bicchieri di plastica, nella tenda della protesta del piccolo villaggio di Susiya. Ha 8 anni e questo compito lo rende orgoglioso: seduti, protetti dal sole che già picchia forte nelle colline a sud di Hebron, ci sono i rappresentanti dei comitati popolari dei villaggi della zona, venuti a dimostrare solidarietà. «Siamo qui per mantenere una presenza fissa – spiega al manifesto Hafez Huraini, del vicino villaggio di At-Tuwani – Se Israele demolisce Susiya, potrebbe demolire altre comunità».

Il timore, dal 4 maggio scorso, è concreto: dopo una tortuosa battaglia legale, la Corte Suprema israeliana ha deciso il destino di Susiya: il giudice Sohlberg ha cancellato l’ordine temporaneo che da anni impediva all’esercito di distruggere la comunità e dato ai militari e all’Amministrazione Civile (l’ente israeliano che gestisce l’Area C della Cisgiordania, il 60% del territorio sotto il controllo israeliano) la facoltà di decidere la sorte del villaggio.

Non sarebbe la prima volta che Susiya viene rasa al suolo: comunità di 250 residenti, pastori e agricoltori, ha vissuto la prima espulsione nel 1986. All’epoca Tel Aviv la giustificò con la presenza di un’antica sinagoga all’interno del villaggio. La zona fu dichiarata sito archeologico: per la legge israeliana, che viene applicata – in violazione al diritto internazionale – nel territorio occupato, significa che nessun civile può risiedervi. Eppure gli abitanti di Susiya, costretti a ricostruire il villaggio a qualche centinaia di metri dal sito, hanno assistito impotenti al trasferimento di coloni israeliani nelle loro terre. Per i coloni, il sito archeologico non è off limits.

Nel 2001, è arrivata la seconda espulsione. Ma stavolta Susiya è rimasta: gli abitanti hanno vissuto in grotte naturali e poi hanno ricostruito le loro case. Case fatte di tende e alluminio, non di cemento: nell’Area C della Cisgiordania, un palestinese può costruire una vera abitazione solo con il permesso delle autorità israeliane. Che nel 96% dei casi lo rifiutano, costringendo la popolazione a costruire lo stesso e a vivere nel terrore di veder arrivare i bulldozer.

Un terrore provocato sia dalle uniformi militari che dalle pistole e i coltelli dei coloni dei vicini insediamenti. Abu Nasser, 65 anni, muove il bastone con foga mentre ci racconta degli attacchi notturni di giovani estremisti ebraici: «Vengono di notte, aggrediscono la gente, danno fuoco alle tende, ammazzano le pecore. Nessuno interviene».

Nessuno interviene perché (a Susiya ne sono convinti) l’obiettivo di Israele è prendersi questo pezzo di terra. «Il villaggio si trova lungo la strada 317 – aggiunge Hafez – che corre lungo la Linea Verde, che divide la Cisgiordania del sud da Israele. Tel Aviv sta creando lungo la 317 un anello di colonie per annettere definitivamente tutto il sud di Hebron al proprio territorio».

Per prenderlo usano ogni mezzo. Anche la Corte Suprema, la stessa che per anni ha impedito la distruzione del villaggio, oggi ha dato il via libera all’esercito. «Per difenderci abbiamo optato per le vie legali, con il sostegno di Rabbini per i Diritti Umani – spiega al manifesto il capo del comitato popolare di Susiya, Nasser Nawajah – Nel 2012 abbiamo consegnato alla Corte i documenti di proprietà della terra per sfidare una petizione dell’associazione dei coloni ‘Regavim’ che chiedeva la demolizione del nostro villaggio perché ‘insediamento illegale’. Il nostro appello ha convinto la Corte a ordinare la sospensione delle demolizioni e ci ha chiesto di presentare un piano regolatore del villaggio».

Il piano è stato consegnato all’Amministrazione Civile che nel 2013 lo ha, ovviamente, rifiutato. «La Corte Suprema ha allora imposto all’esercito di individuare una soluzione alternativa alla demolizione, un fatto positivo: in questo modo ci ha fornito una sorte di protezione».

Quella protezione, però, il 4 maggio è evaporata: la Corte ha deciso di non decidere e rimesso tutto in mano a esercito e Amministrazione Civile. Così due giorni dopo la sentenza, funzionari israeliani si sono presentati al villaggio per consegnare ordini di demolizione.

«La giustificazione ufficiale è che a Susiya manca tutto: servizi pubblici, allaccio all’acqua, all’elettricità – ci spiega il rabbino Arik Ascherman, avvocato israeliano di Rabbini per i Diritti Umani – Ma è proprio Israele che, non riconoscendo il villaggio, non permette di avere tali servizi. Come associazione stiamo seguendo un caso più ampio alla Corte Suprema: la possibilità per i villaggi palestinesi in Area C di presentare un proprio piano regolatore. Israele non permette il naturale sviluppo delle comunità palestinesi per obiettivi politici, senza rispettare le norme di legge. Insomma, sfidiamo le basi dell’occupazione per riconsegnare queste terre ai proprietari, i palestinesi».