Agire «contro l’interpretazione», come recita il titolo dell’ormai famoso saggio di Susan Sontag datato 1966 (che contiene le sue Note sul camp), è il filo che annoda tutta l’opera della scrittrice, della quale nell’ultimo anno molto sono stati citati, a causa delle contingenze, due saggi celebri, Malattia come metafora (1978) e L’Aids e le sue metafore (1988) di cui ora Nottetempo pubblica una nuova traduzione in un unico volume a cura di Paolo Dilonardo (pp. 238, € 18,00).

Sontag interroga la letteratura mondiale e la scienza nelle sue affermazioni, alcune delle quali comicamente erronee al momento dell’arrivo di un nuovo virus e del suo impatto culturale, spesso devastante, in cui prevalgono le metafore militari e di aggressione, mentre il malato è lasciato il più delle volte all’oscuro.
Franz Kafka scriveva: «certo, a parole non vengo a sapere niente di definitivo perché nel trattare della tisi ognuno usa espressioni timide, evasive, con gli occhi fissi». La storia, quindi, è in primo luogo una analisi delle «parole per dirlo», a partire da una approfondita analisi dei lemmi raccolti nell’Oxford English Dictionary, in cui spicca una definizione cinquecentesca di Thomas Paynell: «un cancro è un ascesso melanconico che divora parti del corpo». Come sempre nella visione del morbo la scelta linguistica per metafore è politica, e la malattia viene imputata ai pazienti come un loro deficit morale, secondo strategie precise di accusa.

Non per caso, e Sontag ben lo dimostra ripercorrendo varie culture, la sifilide, malanno per eccellenza legato al sesso prima dell’Aids, era indicata come proveniente da altri luoghi: metafora di una invasione straniera da controbattere in primo luogo vietando l’arrivo di persone da altri paesi, o ponendole severamente in quarantena. La Tbc, che ha prodotto numerosissime favole dell’immaginazione, «è una malattia del tempo, accelera la vita, la intensifica, la spiritualizza», mentre il tumore determina una immaginazione punitiva. «Si intraprendono lotte o crociate (…) a prima vista il colpevole è la malattia, ma anche il malato è colpevolizzato»: nel mondo statunitense, secondo teorie psicologiche spesso semplicistiche, che si basano sulla rispondenza o meno a modelli di vita prevalentemente consumistici.

Sullo sfondo la cupa visione fantascientifica e satirica di Erewhon di Samuel Butler, in cui gli assassini e i ladri ricevono comprensione dallo stato, mentre i tubercolotici sono destinati alla carcerazione come pericolosi nemici dell’autorità.