«I palestinesi lottano contro l’apartheid e l’estinzione – dice al manifesto Susan Abulhawa, medico e scrittrice – , è difficile rimanere ottimisti». Eppure, nei suoi romanzi e nei saggi, Abulhawa spande forza e ottimismo, rinnovati ogni giorno anche nell’impegno politico. L’abbiamo incontrata a Roma, ospite della campagna Cultura e libertà. Nata da una famiglia in fuga dalla nakba, ha vissuto parte dell’infanzia in un orfanotrofio di Gerusalemme.

I romanzi Nel segno di David (Sperling & Kupfer) e poi Ogni mattina a Jenin (Feltrinelli) trasfigurano in letteratura le esperienze dirette, raccontando le vicende di due famiglie, una palestinese e una israeliana. Ne avevamo parlato sul Diplo (dicembre 2006, maggio 2011). Susan ci aveva detto: «Nel conflitto Israele-Palestina, quel che ha falsato i dati del problema, è l’asimmetria presente in tutti i momenti in cui si è sfiorato un trattato di pace: non ci sono mai stati due popoli che si mettevano a discutere a partire da uguali diritti, ma un popolo occupato e uno stato oppressore. Bisogna sanare questa ingiustizia di partenza, stabilire regole di uguaglianza, sul piano dei diritti umani e civili. È la comunità internazionale che deve mettere in atto pressioni calibrate fra le due controparti, poi si potrà parlare di coesistenza e rispetto reciproco».

Oggi, Susan mette in evidenza le responsabilità dei governi europei «che sanno benissimo cosa sta facendo Israele, ma gli accordano privilegi. E sono complici della nostra distruzione». La solidarietà arriva invece «dai popoli, che appoggiano sempre di più la campagna Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni). Una campagna che ha unito sia i palestinesi della diaspora, che quelli in Israele, o nei campi profughi o nei territori occupati e che mi ha ridato ottimismo». La solidarietà arriva anche «da alcuni governi del sud del mondo, come quelli che in America latina stanno costruendo un’alternativa».

La campagna Bds «prende forza anche negli Stati uniti. La Palestina si allontana sempre più dalle mappe e a volte ci sentiamo paralizzati perché non abbiamo niente, né soldi né armi né potere. Penso però che esistano altri terreni in cui Israele non può vendere la propria propaganda di presunto stato democratico, e imporre la propria supremazia: il campo della dignità, della cultura, dei valori comuni ad altri pezzi di mondo che lottano per cambiare le cose».

Abulhawa risiede in Pennsylvania, da poco vive della sua scrittura. In Nordamerica, però, «non è facile se sei palestinese o arabo: a partire dall’11 settembre, ma anche prima. Ricordo che, nel ‘95, dopo l’attentato di Oklahoma City, compiuto da un veterano della Guerra del Golfo, sono partiti i rastrellamenti contro arabi e palestinesi, rinchiusi nei centri di detenzione per immigrati clandestini anche se in possesso di green card. E la lobby ebraica ha imposto al Congresso la legge sulla segretezza delle prove. Mio padre è stato espulso in Giordania».

Da allora, Abulhawa si è occupata del Diritto al ritorno con l’associazione al-Awda. Sul sito dell’associazione, gli anziani palestinesi scacciati dalle loro case, mostrano le chiavi arrugginite. Le stesse che compaiono nei romanzi della scrittrice. «Ora – dice – è pronto un altro romanzo, ambientato a Gaza. Un’altra storia di diverse generazioni che ha al centro figure di donne forti». Intanto, Abulhawa continua l’attività con Playgrounds for Palestine, l’associazione che ha fondato e che si occupa soprattutto dei bambini nei territori occupati.