Tra l’inizio degli anni cinquanta e la metà del decennio successivo, la narrativa giapponese si impose all’attenzione del pubblico europeo anche grazie alla forza espressiva del medium cinematografico: nel 1951 Rashomon, adattamento di due racconti di Akutagawa Ryunosuke, riuscì a conquistare un posto duraturo nell’immaginario collettivo grazie alla fortunata commistione dell’incisivo minimalismo di Kurosawa e della potenza polifonica del racconto; una decina d’anni dopo, nel 1964, La donna di sabbia aprì uno spiraglio sul cinema di Teshigahara Hiroshi e sulla scrittura di Abe Kobo e attraverso il sodalizio di quelle due menti brillanti fece conoscere la scena sperimentale giapponese di quegli anni.

L’Europa guardò il Giappone attraverso quella fessura aperta su paesaggi desertici e affannose ricerche di senso e scorse riflessi di Buñuel e del Neorealismo; sentì spirare echi di avanguardie, e di inquietudini miste a alienazioni comuni. Un Giappone senza fiori di ciliegio e templi zen, lontano dalla narrativa orientalistica attraverso la quale si era andato costruendo un immaginario tuttora duro da scalfire.

Buona parte degli intellettuali europei e americani dell’epoca prestarono attenzione a quella prospettiva diversa, che si fece duratura: l’anti-narrativa di Abe – iper-realista nelle forme e rivoluzionaria negli intenti – ricevette, per esempio, molti più favori all’estero che in Giappone, e non solo l’autore fu più volte candidato al Nobel ma la sua ricezione in Russia, secondo il critico e scrittore Boris Akunin, fu tale da farlo considerare senz’altro «un classico della letteratura sovietica». Se l’accademia di Stoccolma non premiò Abe Kobo, fu verosimilmente solo per ragioni di tempo: scomparve infatti nel 1993, un anno prima che il riconoscimento internazionale venisse attribuito a Oe Kenzaburo, suo ideale discepolo, che considera Abe «uno dei massimi scrittori del nostro tempo, al pari di Kafka e di Faulkner».

Oe e Abe, due fra gli scrittori giapponesi più decisamente «internazionali», condividono uno sguardo sul loro paese che beneficia di quella distanza critica ricercata da entrambi. Oe, scrittore «dei margini», ha appreso da Abe Kobo che la traduzione dell’engagement in scrittura avviene superando la contingenza del reale e sfidando il discorso dominante imposto dalla «tradizione».

Nato negli anni venti e cresciuto in Manciuria durante l’occupazione giapponese, anche dopo il suo rimpatrio alla fine della guerra, Abe sarebbe rimasto un esiliato nel suo stesso paese, per scelta e per militanza intellettuale. Sebbene la critica internazionale lo abbia accostato di volta in volta a Kafka, a Moravia, a Beckett, a Robbe-Grillet, Abe Kobo è indubbiamente un autore inclassificabile e dotato di un respiro universale, in conflitto con la propria fisionomia identitaria ma mai al di fuori dai confini del proprio contesto e della lingua che lo informa; tradurlo implica la sfida a una parabola letteraria sospesa tra una lingua ricca di realia che rimandano al contesto giapponese e non-trame che si aprono a plurime interpretazioni.

Una sfida raccolta da pochi traduttori italiani e poche case editrici, tanto che i titoli dell’autore disponibili sul nostro mercato si contano sulle dita di una mano. In questo panorama, è davvero encomiabile l’operazione editoriale resa possibile dalla fortunata collaborazione fra lo studioso e traduttore Gianluca Coci e Atmosphere libri, che rende ora disponibili due titoli: Il quaderno canguro (pp. 210, euro 15,00) che è l’ultimo romanzo pubblicato da Abe nel 1991, dopo una lunga assenza dalla scena letteraria, e Utopia, sperimentalismo e rivoluzione nell’opera di Abe Kobo (pp. 161,euro 8,00), che inaugura la collana Asiasphere files, dedicata a monografie su autori asiatici. Il saggio su Abe Kobo presenta al pubblico italiano una collezione di studi ben documentati e approfonditi sulla sua poliedrica vicenda artistica: Abe fu infatti prosatore e saggista, ma anche drammaturgo, fotografo, poeta e perfino acuto sperimentatore nei campi dell’arte figurativa e della musica elettronica. Quanto al romanzo, Il quaderno canguro appartiene all’ultima fase della produzione di Abe, quella che Coci definisce «della pura creazione», che condensa – fino quasi a farle implodere – tutti i temi e le tecniche espressive sperimentate durante una carriera densa e poliforme: la metamorfosi vegetale, la riflessione sull’identità e sull’individualità, la messa in scena dell’esperienza onirica in una scrittura che non segue consequenzialità logiche, bensì il ritmo sincopato dell’inconscio: «scrivere – diceva Abe – non è creare forme con del filo di ferro o modellare l’argilla (…) secondo me prima di scrivere bisogna restare in attesa e aspettare che tutto diventi automatico».

«Sarebbe dovuta essere una mattina come le altre»: così ha inizia l’avventura del protagonista del Quaderno canguro, la cui quotidianità sarà ribaltata dall’imprevedibile crescita di germogli di daikon (il ravanello giapponese) sui suoi arti inferiori e dalle ancora più inaspettate conseguenze del decorso successivo al ricovero. Sdraiato sul suo letto d’ospedale, l’io narrante – focus unico di tutta la narrazione che si sviluppa in un tempo-spazio sconnesso e privo di soluzioni di continuità – vivrà la veglia di un incubo che lo porterà fin sulle sponde dell’inferno buddhista; nel suo viaggio attraverso un labirinto di cui non è semplice cogliere l’architettura neppure guardandolo dall’esterno, il non-morto incontrerà una serie di personaggi che ricordano l’epopea ospedaliera di un altro mondo distopico di Abe, L’incontro segreto (Mikkai, pubblicato alla fine degli anni settanta).

Già il titolo fornisce una pista all’interpretazione dello «strano mondo» del Quaderno canguro, nel quale Abe invitò il lettore a entrare «senza opporre eccessiva resistenza»: come il taccuino inventato dal protagonista può contenerne innumerevoli altri grazie a una tasca apposta sulle copertine – quasi un gioco di specchi che si rimandano all’infinito –, così la narrazione può procedere attingendo a una riserva inesauribile di libere associazioni di idee che si ripiegano le une sulle altre nella non-logica del regime onirico. Alla luce del percorso artistico di Abe nella sperimentazione teatrale e cinematografica che Coci brillantemente illustra nel suo saggio, il mondo surreale e sconnesso del Quaderno canguro acquista una sua spiazzante coerenza.
Tardivo, ma ampiamente meritato, il riscatto che questi due titoli importanti assicurano alla fama di Abe Kobo presso di noi permette di portare nuova luce su uno scorcio di letteratura giapponese del XX secolo finora ingiustamente trascurato.